Il complesso dell'abbazia di San Giuliano
Ospitaliere in Pomario a Como
Hospitium benedettino,
giovannita, agostiniano, ora civico
FOTOGRAFIE:
Ex
abbazia di San Giuliano in Pomario a Como
Fra’ Agostino Rossi il giorno 11
marzo dell’Anno del Signore 1467 scriveva «ai serenissimi duchi
Bianca Maria e Galeazzo Maria Sforza» informandoli di aver
conferito con Sua Santità Paolo Pp II
riservare l’antica Abbazia benedettina di San Giuliano in
Pomario a Como a don Alluigi de Locarno. Paolo II è il pontefice
che stabilì che il Giubileo dovesse esser indetto e regolarmente
celebrato ogni venticinque anni anziché cinquanta, come invece
prescrive la tradizione ebraica che rispetta ossequiosamente la
Parola di Dio espressa in Levitico XXV ove «il cinquantesimo
anno sarà per voi un giubileo».
Il motivo
dell’intervento di fra’ Agostino Rossi era dipeso dalla morte
del Vescovo suffraganeo della città di Como e la risposta del
pontefice faceva ben sperare «essendo assicurato della vacanza,
si adattava a fare cosa che piaccia alle Vostre Eccelsitudini».
Orbene bisogna riferire ai nostri tre lettori che il diritto di
nomina del Vescovo di Como spettava a tre abati: quello
di Sant’Abondio, di San Carpofaro e di San
Giuliano in Pomario. In data 14 marzo i serenissimi duchi
Sforza rispondono ad Agostino dichiarandosi soddisfatti del
documento da lui inviato e gli impongono di eseguire quanto gli
verrà ingiunto in seguito.
Salvatore
Arena nel suo secondo volume “Storia dell’Ordine di Malta in
Lombardia”, pubblicato nel maggio 1981, riporta nella nota
numero 1 di pagina 169 «nel I volume ho notato che nell’ASMi
mancano le cartelle relative alle commende del Lago di Como;
qualche documento comense si trova in questa serie di atti». In
questi giorni, dopo la consultazione di alcuni testi presso
l’archivio storico diocesano milanese, abbiamo potuto appurare
della presenza presso l’Archivio storico della Diocesi di
Como (ASDCo) di un documento che contiene alcune
precisazioni al riguardo. Sappiamo che l’antica abbazia
benedettina durante il XIV e XV secolo subì un lento ed
inesorabile impoverimento e che non cadde a pezzi poiché annessa
alla struttura vi erano numerosi coltivi ed un ospedale che dava
lustro all’intero rione di “Pomario”. “Pomario” letteralmente
significa “pometo”, “frutteto”. I “sangiulianesi” venivano detti
“patatat” anche se come dicono i comaschi e un loro poeta
dialettale:
«te ringrazi
pomm de tera / t’eet salvaa’ i gent de la famm / in temp de
guera…».
Occorre ricordare che il luogo fu
sempre adibito e scelto per insediamenti religiosi di
prim’ordine: qui ebbe sede l’Abbazia dei Benedettini,
poco distante vi fu il monastero di San Lorenzo delle monache
benedettine e, dirimpetto ad esso, vi fu l’ospedale di
San Gottardo. Insomma il “cuore” orante e pulsante della
vita spirituale comasca.
La storia del “Borgo di San
Giuliano in Pomario”, il nome del quartiere è dato dalla
presenza di un monastero con annesso hospitium, è
antichissima. La presenza dell’uomo in Como è confermata
–proprio qui alle falde della montagna di Brunate- sull’altura
orientale della convalle, oggi denominata “Pomario” o “San
Giuliano”, già dall’età del bronzo da numerosi sepolcreti che
vengono rinvenuti durante l’edificazione di alcuni palazzi e la
demolizione di antichi edifici. Neppure un secolo fa venne alla
luce una tomba, formata dalla solita cassetta in lastre di
pietra e contenente il cinerario di terracotta che venne,
fortunatamente, estratto integro: è la tipica urna dell’Età del
bronzo databile al X sec. a.C. Le dimensioni del vaso sono di
una ventina di centimetri, sia di altezza che in larghezza, e di
base neppure dieci. La modalità decorativa è abbastanza
semplice: sulla spalla e sotto il labbro evidenti decorazioni a
solcature, con motivi di triangoli e linee. Tutti questi reperti
vennero studiati da don Santo Monti negli ultimi giorni della
sua esistenza ed è in ossequio a queste sue scoperte che la
prosecuzione della via Pessina è oggi a lui dedicata.
I numerosi ritrovamenti
confermano pertanto che i primi abitanti della convalle ove ora
sorge Como si determinarono proprio nel Borgo di Pomario, nei
pressi del complesso di San Giuliano l’Ospitaliere. Ciò si deve
–quasi certamente- ad una posizione geografica davvero
fortunata, ove durante tutto l’arco della giornata il sole
ricopre i coltivi ed un tempo più fonti approvvigionavano e
circoscrivevano i confini territoriali. Terreni fertili ed acque
sono fra i motivi principali di un così antico insediamento. Il
Pomario si scorge dal lago in quanto risulta leggermente
sovralzata rispetto alla piana della convalle,
caratteristicamente caratterizzato da quel distendersi
–parrebbe- ai piedi del colle di Brunate, che da tempi
antichissimi contemplava tre paludi. La ricchezza di acque, il
Borgo di San Giuliano aveva a sua disposizione “la Moja” (a
mollo) che era alimentata dal torrente che scende dal monte
Uccelera e che in onore del console romano che lo arginò prese
il nome di Valduce. Questo luogo un tempo era percorso da
camminamenti campestri, alternato da numerose e zampillanti
fonti sorgive. Dalla Prudenziana scendeva (lungo l’attuale via
Rezzonico) il torrente Sorga; poco lontano, in aperta e
soleggiata piaggia scorreva un’altra fonte, poi detta dei
Benedettini, dato che attraversava il monastero dei Cluniacensi.
Oggi questa fonte, se pur di ben ridotta portata, scorre ancora
all’interno del cortile della Cà d’Industria, ed è
visibile soltanto alzando la botola di un pozzo. Benedetto
Giovio, nei suoi Carmi, la chiamò Lacustra, perché scendendo a
valle formava un ridotto d’acqua. Ancora nel secolo scorso le
acque di questa fonte furono oggetto di trattativa tra i
proprietari ed i vicini coloni, che ambivano servirsene per
irrigare i loro campi. Più a valle, ai piedi del borgo, vi era
il Fonte di San Lorenzo che i nostri avi chiamavano Rivellino,
poiché le sue acque scorrendo lambivano la Torre Rotonda del
Castello, per poi sfociare anch’esse nel torrente Valduce. Una
mappa del 1670, appartenuta a Giovan Battista Giovio, illustra
le floride coltivazioni che circondavano la chiesa di San
Giuliano: a monte la vigna delle monache e quella di Santa
Pudenziana; a valle la vigna di San Lorenzo ed il campo di San
Gottardo; a levante l’estesa campagna di Santa Croce, che,
partendo dalla chiesa dei frati zoccolanti, risaliva la china
sino alla Badirada.
A monte la campagna è delimitata
dall’antica Strada di Zezio, ed a valle dal torrente Valduce.
Situazione pressoché analoga si trova registrata nelle tavole
del Catasto Teresiano e tale rimarrà sino alla metà del sec. XIX,
quando, con la rivoluzione industriale, alcuni terreni agricoli
verranno occupati da stabilimenti tessili e tintori, che
mostreranno solenni le loro svettanti ciminiere.
In questo scenario campestre
aperto e soleggiato e in presenza di orti e frutteti, il luogo
venne definito Pomario: lavori agricoli e pastorizia si
incrementarono sempre più nel tempo, assegnando nella tradizione
al borgo la definizione di “Borgo degli ortolani”. I coloni con
solerzia hanno sempre lavorato i campi, spargendo concime e
stallatico.
«La povertà
è invece palese nelle chiese di montagna; pure molto poveri sono
gli ospedali, indice di un effettivo esercizio dei propri
obblighi umanitari. Notevole è il numero dei sacerdoti che,
secondo le prescrizioni vaticane, dichiararono la loro
impossibilità di pagare le decime; simile è la situazione per
alcune religiose. [...] Le principali famiglie nobiliari di Como
e della diocesi hanno loro membri disseminati in tutto il clero,
il che rispecchia l’abitudine allora diffusa di immettere i
cadetti nella carriera ecclesiastica. Sono presenti alte
parentele, quali ad esempio i Della Torre di Rezzonico, e
persino i conti del Seprio. La maggior parte degli ospedali si
trova in Como; solo quattro sono elencati nella campagna. Tale
squilibrio è da riferirsi al fatto che gli ospedali medioevali
non accoglievano solo infermi e indigenti, ma ospitavano i
viandanti, con funzione, cioè, di ospizi xenodochi. Da Como
passavano le strade dirette ai valichi alpini; l’intenso
traffico, quindi, giustificava una così intensa presenza
ospedaliera. Nella campagna funzioni ospedaliere, d’altronde,
erano largamente assolte da monasteri e da case dell’ordine
degli Umiliati, largamente presenti lungo le grandi vie di
traffico».
Apparentemente non vi sono
fonti dirette che attestino la presenza della Sacra
Religione di San Giovanni di Gerusalemme durante il XIII-XIV
secolo in Como -per quanto concerne la città, seppure in Diocesi
si debba registrare la presenza di Giovanniti presso
Montesordo, Pieve di Fino, a Cermenate-, ma la presenza dei
Benedettini –già dal X secolo in Como a Pomario-, ordine del
Beato Gerardo Sasso fondatore del primigenio hospitium
dinanzi il Santo Sepolcro e l’Anastasis in
Gerusalemme e da cui si svilupparono gli Ospitalieri di San
Giovanni. L’esistenza dell’Ordo Sancti Benedicti in
Como fa certamente supporre, unitamente al relativo ospedale
comasco, una presenza anche dei Giovanniti.
Diversi gli studi sulla rete di ospedali presenti
in territorio comasco: quello di San Gottardo, di
san Martino di Zezio
ed il nostro di San Giuliano Ospitaliere. Pietro Pensa
nella sua “Storia della diocesi di Como” sottolinea che
«dipendenti dal Capitolo comense erano: l’abate e il convento
benedettino di sant’Abondio, l’abate e il convento benedettino
di san Carpoforo, l’abate e il convento benedettino di san
Giuliano e l’ospedale, il convento femminile di san Lorenzo
fuori mura, il convento benedettino di Cernobbio, i monasteri
cluniacensi di Olgiate e Vertemate».
Le famiglie di alto lignaggio
inviavano i loro figli cadetti presso la Sacra Religione di
San Giovanni di Gerusalemme e non è un caso che –confermato
da vari documenti- l’antica abbazia durante un periodo di crisi
per la Diocesi e per l’intera Chiesa, nel XV e XVI secolo, venne
“data in commenda”. Il motivo della soppressione nel 1451
dell’abbazia con conseguente riduzione a Commenda data a prelati
secolari è dipeso dalla scarsità di vocazioni in cui versava
l’epoca dell’Umanesimo. L’interesse manifestato da alcuni
presbiteri nell’ottenere la Commenda era teso a disporre dell’ospedale
di San Giuliano e dei bei luoghi circostanti l’antico
monastero. L’intero complesso subì comunque un progressivo
decadimento, di tanto in tanto avversato da iniziative personali
di fedeli e da qualche lascito.
Questo lento ed inesorabile
crollo delle antiche e belle strutture architettoniche non fece
perdere la sua peculiare –ed iniziale- vocazionalità: l’hospitale
non cessò. Como è segnata dalla presenza, sintomatica,
dell’Ordine degli Umiliati che confermerebbe una presenza anche
dei Giovanniti presso la struttura benedettina.
L’osteria di via Monti era un
tempo la locanda, posta al pian terreno, di un antico
hospitium annesso alla struttura benedettina; questa seconda
struttura ospedaliera dava ospitalità ai parenti degli ammalati
gravi. Un’ulteriore conferma dell’obsequium pauperum
-peculiarità cardine del Sovrano Ordine Ospitaliero di San
Giovanni- è la presenza di una struttura di accoglienza non
solo degli ammalati, ma persino delle loro famiglie; tutela dei
Signori Ammalati e dei loro cari.
La dedicazione a San Giuliano Ospitaliere
Tutt’altro che secondaria è la dedicazione della
primigenia Abbazia benedettina a San Giuliano l’Ospitaliere. A
livello etimologico “Giuliano” significa, dal latino,
appartenente alla “gens Julia”, quindi dell’illustre
famiglia romana; è il protettore degli
albergatori,
dei carpentieri, dei viaggiatori ed è il patrono
di Macerata. San Giuliano è venerato a Sora e Atina il 27
gennaio; la Chiesa celebra anche San Giuliano di Le Mans,
vescovo lo stesso giorno; a Parigi è presente la chiesa di
Saint-Julien-le-Pauvre.
Interessante sottolineare, anche ai fini
iconografici per la ripresa e l’evoluzione che segnerà sull’arte
europea, che secondo la “Leggenda Aurea” di
Jacopo da Varagine
fu vescovo di Cemmonia l’odierna Mans (“Cenomanensis episcopus”).
Si dice che San Giuliano fosse quel Simone il lebbroso che Gesù
invitò al convito, designato dagli Apostoli vescovo di Cemmonia
allorquando il Maestro ascese al cielo. Giuliano, ricolmo di
molte virtù, resuscitò tre morti e poi se ne andò in pace alla
Casa del Padre. Questo Giuliano vescovo è quel santo che i
pellegrini invocano per trovare buona ospitalità poiché fu
accolto da Gesù quando era lebbroso.
In realtà si crede che fosse
anche quell’altro Giuliano che uccise il padre e la madre. Un
giorno questi, giovane gentile, volle cacciare un cervo, ma
l’animale si rivolse a lui (“subitus cervus versus eum divino
nutu se vertit”): «Tu mi stai dando la caccia, ma sai che
sarai l’assassino di tuo padre o di tua madre?». Il giovane
udendo ciò rimase sbigottito e, perché non avvenisse quanto
detto dal cervo, lasciò ogni cosa e partì. Giunse in una
contrada e si accostò ad un principe. Quest’ultimo che si portò
valentemente in ciascun luogo e battaglia venne creato cavaliere
nel palazzo di quel principe che gli diede una grande castellana
vedova. Giuliano ricevette il castello per dote e qui si
trasferì abbandonando i suoi. Nel frattempo il padre la madre di
Giuliano, preoccupati della perdita del figlio che non fece più
ritorno a casa, si misero ad andare a cercarlo nel mondo. In
ogni parte cercarono il loro figliolo, sennonché giunsero al
castello ove Giuliano era il signore.
Il complesso di San Giuliano Ospitaliere in Como
Oggi due lapidi sepolcrali
custodite al Civico Museo di Como testimoniano la presenza di un
primigenio luogo di culto, con annesso un camposanto,
dedicato a San Giuliano sin dal sec. VI d.C.. La prima
lapide, risalente all’anno 522, indica il nome di un certo
“Renato”, oltre ad indicare il luogo di San Giuliano. Un’altra
lastra, estremamente interessante, reca una scritta risalente al
VII secolo e raffigura due agnelli che si abbeverano ad un
cantare ansato. Questa bella lastra reca un’iscrizione tombale
da cui possiamo riconoscere un nome di donna –Giuntula- il
figlio Basilio e il nipote Giuntione. Questo epitaffio si
conclude con una intercessione al custode del San Giuliano
affinché la tomba non sia manomessa sino al giorno del
Giudizio universale. Il testo inciso nella lapide
confermerebbe l’esistenza di un antichissimo sito dedicato a San
Giuliano Ospitaliere in Como, di un addetto al culto
–presbitero- e di un cimitero. L’antico San Giuliano doveva
esser un mero oratorio, una semplice struttura per pratiche
devozionali, poiché non esiste alcuna documentazione scritta che
attesti l’esistenza di una chiesa.
Il più antico documento secondo
diversi storici che confermerebbe l’esistenza di una chiesetta
di San Giuliano è del 1163. Pietro Gini indicano l’esistenza di
un atto di donazione –del gennaio 1151- a favore della chiesa di
San Fedele stipulato “in portico Ecclesia S. Juliani de Cumis”;
ciò farebbe supporre che la chiesa di San Giuliano esistesse già
nella prima metà del XII secolo. In questo antico rogato è anche
fatta particolare menzione di un ospedale per i poveri annesso
all’edificio chiesa. In merito alla fondazione di un centro di
cura d’anime, bisognerebbe risalire attorno all’anno 1055,
durante l’episcopio di Bennone -45° vescovo di Como–, lo stesso
anno in cui l’imperatore Enrico III conferiva al vescovo di Como
la donazione del demanio cittadino. Venne assegnato ai monaci
Benedettini la conduzione del monastero annesso alla chiesa
unitamente all’hospitium; quest’Ordine monastico aveva già la
cura di Sant’Abbondio e San Carpoforo. La gestione fu poi
affidata ai cluniacensi.
Le antiche strutture romaniche in
pietra moltrasina,
sono oggi sostituite da cotto di laterizio e per questo
successivamente intonacato durante la fase barocca. La zona
absidale doveva essere diversa, ciò che è rimasto è solo il
campanile, la concomitanza di questo presso l’area presbiteriale
confermerebbe la prassi degli Ordini benedettini che prevedeva
al momento dell’Elevazione il suono delle campane. Questo
compito spettava al monaco più giovane che si alzava dal coro
per andare a suonare le campane. Il campanile è tornato al suo
antico splendore dopo i restauri iniziati nel 1978, oggi
possiamo ammirare le antiche monofore ad arco a tutto sesto, che
purtroppo vennero otturate nel sec. XVII per sostenere il peso
della parte superiore, di epoca barocca e visibile dal restauro
conservativo del XX secolo. All’interno della torre campanaria,
rettangolare, si possono notare affreschi del XIV secolo,
ricordati anche da Benedetto Giovio, con al centro un Santo
paludato dalle braccia spalancate nell’atto di benedire i
devoti. Questi stupendi affreschi sono purtroppo deteriorati in
quanto durante il XX secolo danneggiati per consentire
l’apertura di un passaggio che unisse il vicino locale (adattato
a palco scenico di un piccolo teatro) al camerino riservato
degli attori.
Alcuni ritengono che presso la
chiesa di San Giuliano in Pomario vi siano i Corpi di un
Beato Federico e Compagni che andando in bussola a
San Giacomo di Galizia e a San Pietro in Roma fossero morti ed
ivi sepolti, come mostra una pittura antichissima. Naturalmente
si tratta di una fantasia popolare alimentata da Benedetto
Giovio che nel 1532 aveva scritto: «credono certuni che il beato
Federico, sepolto coi suoi compagni in questa chiesa, come
l’indica un dipinto con la leggenda, sia l’imperatore Federico
Barbarossa. Io non divido il loro parere sopra ciò, perrocché
l’imperatore Federico morì in una spedizione d’oltre mare come
l’accertano tutti gli storici che hanno lasciato memoria delle
sue gesta. Costui sarà stato una brava persona che con parecchi
compagni avrà peregrinato a San Giacomo di Galizia e alla chiesa
de’ SS. Apostoli Pietro e Paolo a Roma; e invero quella pittura
rappresenta il B. Federico e i compagni in abito di pellegrini
(come costumano i forestieri che vanno a Roma), quasi condotti
per mano dagli Apostoli al cospetto del Redentore; quelli poi
che sono sotterrati nel cimitero, come spiegano i cartelli, non
trovo di poterli credere morti insieme, a meno che per avventura
non siano morti di peste, il che succede spesso a’ viandanti; e
lasciato come si suole qualche tesoro a questo monastero,
abbiano disposto che vi si facesse un monumento di pietra e la
pittura. Comunque sia è una stranezza il cercare fatti della
città nostra contro la verità della storia, quando soprattutto
non vi è un’in segna, né il nome dell’imperatore».
Soltanto in anni recenti è stato
segnalato come le strutture della chiesa di S. Giuliano
comprendano ampi resti della basilica benedettina. Il merito va
ascritto a Mario Longatti, che ne diede notizia nel 1978 al
convegno celebrativo del centenario della Società Storica
Comense. Si tratta in sostanza del campanile impostato
sull’absidiola meridionale, ma anche di buona parte della navata
settentrionale, inglobata nel convento. La chiesa fondata, o
meglio riformata, dal vescovo Bennone a metà del sec. X può
essere immaginata, sulla scorta dei pochi resti, ma anche della
documentazione d’archivio più antica, anteriore all’insediamento
delle monache, come una basilica a tre navate, suddivise in
sette campate, coperte da tetto ligneo salvo forse le campate
absidali. La navata centrale risulterebbe larga circa il doppio
di quelle laterali, secondo una proporzione diffusa e coerente
con i caratteri del romanico comasco. Alcuni resti di archi e
aperture sono stati messi in luce nel corso di lavori recenti.
In particolare è stata evidenziata la struttura del campanile,
esternamente irriconoscibile vent’anni fa: si tratta di una
torre massiccia nelle proporzioni, con monofore e grandi
aperture archeggia te, con ghiere di tufo, in quella che fu la
cella campanaria, poi tamponata allorché il campanile, forse a
fine Seicento, fu sopralzato di un piano. All’interno del
campanile, tra gli altri re- sii dell’antica disposizione, si
sono conservati alcuni lacerti d’affresco, di età trecentesca,
ma in parte disposti su due strati, e dunque da collocare lungo
un arco di tempo non brevissimo. L’impianto basilicale con
campanile impostato su un’abside laterale è assai diffuso in
area lombarda e, giusta l’ipotesi di Longatti, caratteristico
delle chiese conventuali, per ragioni di funzionalità liturgica.
La chiesa benedettina di S. Benedetto di Valperlana costituisce
forse, anche per le proporzioni, l’esempio più chiaro di come
l’antica S. Giuliano poteva apparire.
La recente parrocchia deriva
dall’impianto dell’antico convento delle monache Agostiniane
di S. Andrea di Brunate, insediatesi nella vecchia abbazia
da tempo deserta di monaci, fecero dapprima costruire un
chiostro adeguato alle rigide regole della clausura
controriformista, poi provvidero alla chiesa, erigendo nel pieno
Seicento un edificio magnifico e ricco di decorazioni.
Il passaggio della chiesa di 5.
Giuliano alle monache avvenne, come sappiamo, nel 1592 per
concessione dell’abate commendatario Tobia Peregrini. La
circostanza è di qualche interesse, poiché il Peregrini era uno
degli uomini di fiducia in Como del cardinale Tolomeo Gallio,
per conto del quale seguiva numerosi lavori: tra questi la prima
costruzione del Collegio Gallio, la ristrutturazione della
basilica di S. Abondio, la prima fase della costruzione della
cappella Gallio in S. Giovanni Pedemonte. Per quanto risulta,
nella prima fase il Peregrini non fece venir meno il suo
interessamento alle vicende del nuovo monastero: sembra quindi
ragionevole ipotizzare che l’adattamento della vecchia abbazia
sia stato impostato nell’ambito del medesimo ambiente che
serviva il cardinale di Como. Una riprova di questa ipotesi
viene da un documento del 14 gennaio 1594 (notaio Giulio
Raimondi), in cui Silvio Peregrini, procuratore delle monache e
del fratello mons. Tobia, si accordava con il muratore Pietro
del Fra di Vacallo per fare una serie di lavori, volti a
realizzare davanti alla chiesa una piazza, secondo la
disposizione che, sostanzialmente, vediamo oggi. Che il muratore
risulti documentato nel 1580 a Frascati è una curiosità, ma
utile per rievocare quel mondo di costruttori girovaghi che fu
l’ambiente edilizio comasco: aver lavorato a Frascati
significava certamente aver lavorato per architetti di primo
piano, ed essere passati per Roma, la città dove, avrebbe detto
un magistro, “gli sciochi si rafinano, insomma qua è dove s’apre
il spirto”. Ma ancor più curiosa, nel documento relativo alla
nuova piazza, è la clausola per cui il Del Fra avrebbe avuto
“habitacolo in Como a casa del Architetto Antonio Piota”: ovvero
di quel personaggio, onnipresente nei cantieri comaschi del
secondo Cinque cento, che era anche una vecchia conoscenza di
Tobia Peregrini e di Tolomeo Gallio. Che il Piotti abbia in
qualche modo progettato i primi lavori del monastero di S.
Giuliano non è detto esplicitamente dalle carte finora note: ma
è un’ipotesi proponibile, che potrebbe essere tenuta in conto
per valutare una fabbrica condotta lentamente, per parti, nei
successivi decenni, e assai rimaneggiata in seguito, in
particolare dopo la soppressione con l’adattamento a sede della
Ca’ d’Industria. In ogni caso i caratteri del chiostro sono
assai austeri, ma si potrebbe proprio dire semplici, con archi
su colonne doriche e pareti nude, che forse un tempo ebbero
qualche ordinanza dipinta. L’elemento di maggior spicco sembra
il por tale, tipica commistione di elementi del repertorio
classicista, con la gracilità di forme consueta al passaggio tra
Cinque e Seicento.
La chiesa monastica del Seicento
Unico dato accertato sulla chiesa
barocca è la data di Costruzione, compresa tra il 1674 e il
1679, con la solenne riconsacrazione nel 1683. Non è molto, ma
si tratta di anni importanti per la produzione architettonica
locale. Sono infatti gli anni in cui Benedetto Odescalchi
diviene Papa col nome di Innocenzo XI, e la sua famiglia in Como
segue una serie di fabbriche di grande livello, tra cui in
particolare i completamenti del Duomo e, gioiello perduto, la
cappella di famiglia in S. Giovanni Pedemonte. Se per ora non si
possono produrre circostanze precise a chiarire le vicende di
committenza della nuova chiesa, possiamo soffermarci su un
elemento preciso:
nelle fabbriche degli Odescalchi
ricorre il nome prestigioso dello stuccatore Agostino Silva di
Morbio, che fu anche il decoratore della nuova San Giuliano, in
cui lasciò la sua firma sul l’ala dell’angelo a sinistra
dell’altare di S. Agostino.
La chiesa seicentesca presenta la
tipica struttura delle chiese dei monasteri femminili della
piena età barocca, per cui lo sdoppiamento tra chiesa interna e
chiesa esterna, che nei celebri esempi di primo Cinquecento come
il S. Maurizio al Monastero Maggiore di Milano (a Como si
potrebbe citare S. Cecilia) aveva dato spazi equivalenti, quasi
gemelli, si era ormai risolto in una precisa gerarchia tra una
chiesa esterna magnifica, luogo deputato per le esercitazioni
architettoniche sul tema della pianta centrale, e una chiesa
interna ridotta a semplice coro dietro la parete dell’altare.
Nel caso di S. Giuliano la chiesa esterna diviene un ottagono
svasato, ornato da ordinanze in stucco ricche di fogliami e
figure angeliche e reso dinamico dalla leggera irregolarità del
poligono. La disposizione è ancor oggi ben leggibile, anche se
l’abbattimento del muro diaframma, unificando spazialmente il
presbiterio e il retrocoro delle monache, ha rafforzato l’asse
longitudinale dell’impianto. Soltanto se si ricorda la
disposizione antica si osserva la divisione tra presbiterio e
coro, comunque marcata dalla sequenza delle volte, e si può
risalire all’originaria spazialità centrica della chiesa.
Se il nome dell’architetto è
ignoto, tanto che si è pensato ad una attribuzione al Silva
sulla scia di un’ipotesi che vorrebbe spesso gli stuccatori
attivi anche come architetti, penso non si dovrebbe trascurare
la circostanza che vuole invece nelle fabbriche coeve degli
Odescaichi onnipresente Gerolamo Quadrio, allora architetto del
Duomo di Milano e creatore di magnifiche chiese monastiche,
costruite su intellettualisti che variazioni attorno alla
centralità e alla combinazione di poligoni.
Le chiese monastiche del Seicento
erano teatro, la parola non è scelta a caso, di una meritoria
competizione per la maggior bellezza dell’apparato e delle opere
d’arte. Nel caso di Como basti ricordare a inizio secolo la gara
tra la pala del Gentileschi a S. Cecilia e quella del Morazzone
alla Trinità; nella seconda metà del secolo la competizione si
sposta sulla ricchezza dell’apparato in stucco, per cui S.
Giuliano si confrontò, ad esempio, con il complesso barberiniano
di S. Cecilia.
Determinanti per la definizione
architettonica della chiesa di 5. Giuliano sono infatti gli
stucchi, opera di due artisti molto rappresentativi quali
Agostino Silva e Giampietro Lironi, entrambi ticinesi: di Morbio
Inferiore il Silva, di Vacallo il Lironi. Ancora una volta, si
tratta di esponenti della infinita schiera di artisti migranti,
memori di esperienze lontane.
Nel 1856,
durante la demolizione di un muro di casa Coduri, venne alla
luce una lapide (poi depositata al museo civi co di Como) con la
seguente scritta, che riportiamo nel testo originale, con la
versione italiana: «D.M. / cariosam vetustatem / loci miseratus
/ PROTASIUS PORRUS / minorista Augusta Pretoria a lamiis
sectandis rediens / Faciebat / MDXII».
A notizia si ricorda che il
comasco Protasio Porro, erudito di lingue orientali, teologo e
poeta, fu inquisitore domenicano ad Augusta Pretoria (Aosta) ma
rientrato a Como indossò il saio francescano. Morì nel convento
di San Francesco a 83 anni nel 1535. Fra i tanti abati secolari
succedutisi si ricordano Filippo Simonetta di Milano, il comasco
Paolo Giovio, vescovo di Nocera, che nel 1541 rinunciò alla
Commenda in favore del nipote Alessandro, figlio di Benedetto.
Nel 1594, come ricorda lo storico
Giuseppe Rovelli, il commendatario Tobia Pellegrino, vicario
generale del vescovo Feliciano Ninguarda, iniziò una serie di
restauri, concedendo l’uso del monastero alle monache
Agostiniane di Sant’Andrea di Brunate. Qui trasferendosi, esse
portarono mobili e suppellettili, ma soprattutto vollero
trasportare le spoglie di Maddalena Aibricci. I resti mortali
furono deposti in una piccola ur na, dopo che Tobia Pellegrino,
recatosi a Brunate, ebbe fatta la ricognizione, a seguito
dell’apertura del sarcofago.
I resti di Maddalena Albricci
rimarranno per due secoli in San Giuliano per poi essere
custoditi da una nobile famiglia comasca. Dopo la beatificazione
da parte di Pio X avvenuta l’il dicembre 1907, i suoi resti
verranno recuperati dal vescovo Mons. Macchi e deposti sotto
l’altare di Sant’Ambrogio in Cattedrale. Nel maggio 1998, dopo
una nuova ricognizione effettuata presso il monastero della
Visitazione e dopo una sosta di due giorni in San Giuliano, la
salma venne riportata nella chiesa di Brunate.
Le opere di ristrutturazione
iniziate da Tobia Pellegrino proseguirono con solerzia su
iniziativa delle monache in tutto il monastero. La chiesa venne
ridimensionata secondo l’attua le struttura e l’altare venne
posto al centro, consentendo così di dividere le monache dai
fedeli durante le funzioni. Come scrisse lo storico Primo Tatti
nei suoi “Annali Sacri”, le monache ornarono l’interno ponendo
nel coro due busti raffiguranti Santa Rita da Cascia (1381-1457)
e Santa Chiara da Monte Falco (1268-1308). Installarono inoltre
quattro grandi statue nelle nicchie sovralzate, plasmate da
Pietro Lironi, raffiguranti personaggi dell’Ordine agostiniano e
precisamente: due ve scovi Sant’Agostino (354-430) e San Tommaso
da Vifianova (1488-1555), quindi San Nicola da Tolentino
(1245-1305) e San Giovanni da San Facondo (1430-1479).
All’inizio del seco lo XX, si pensò che rappresentassero Sant’Abbondio,
San t’Ambrogio, San Ludovico e San Nicola; saggiamente in tempi
recenti vennero eliminate le scritte con tali dedicazioni.
Fra il 1669 e il 1692 risultano
presenti in questo convento 45 monache, 7 converse e 1 novizia.
San Giuliano Ospitaliere e Malta
Anche presso l’Isola
di Malta esiste una chiesa, parrocchiale, dedicata a San
Giuliano l’Ospitaliere, l’interesse verso questo santo
venerato dalla Chiesa è confermato anche dal nome che in maltese
si dice San Ġiljan.
Lungo la costa, a
settentrione della capitale di La Valletta, sorge una chiesa in
un quartiere che è rinomato per il turismo e soprattutto per i
ristoranti accentrati nell'area detta Paceville. Bisogna
sottolineare che sino al XIX secolo l’area oggi occupata da San
Giuliano era essenzialmente disabitata, fatta eccezione per
l’attuale Spinola Palace, l’antica chiesa e le modeste,
ma pittoresche, abitazioni dei pescatori. Nella zona di
Mensija vennero però rinvenute delle tracce di carri
risalenti all’Età del Bronzo, all’interno del distretto
di Tal-Ballut, l’area del sito è ora occupata dalla
Cappella del Convento del Sacro Cuore.
Una primigenia
chiesina intitolata a “San Giuliano l’Ospitaliere” è stata
costruita nell’anno 1580. La chiesa venne ricostruita
interamente nel 1593 poiché troppo misera ed inadatta a
contenere gli abitanti del quartiere. Il Vescovo Tommaso
Gargallo fece la sua visita pastorale durante l’anno 1601, ciò è
emerso da ultime ricerche. Il tempio cristiano subì una nuova
trasformazione nel 1730 quando vennero demolite gran parte delle
mura e riedificata, anche se le pitture capitolari rimasero
comunque quelle originarie. L’ultima riorganizzazione del tempio
cristiano è avvenuta nel XIX secolo, periodo in cui la chiesa
diventò parrocchia.
Questa zona dell’Isola di Malta
ha assunto il nome dal santo patrono, San Giuliano,
conosciuto anche col nome di “Giuliano il Povero” o “Gliliano
Ospitaliero”. E’ interessante notare come fosse
esemplificativo ed importante per i Giovanniti questa
titolazione, tanto da rendere, a livello toponomastico, una
particolare cittadina dell’isola melitese. Prima della riforma
del Calendario dei Santi a San Giuliano era dedicato il 27
gennaio, di questa data troviamo conferma anche nella “Legenda
Aurea” di Jacopo da Varagine. Oggi viene invece celebrato il 12
febbraio, sebbene nelle tradizionali feste maltesi venga invece
festeggiato nell’ultima domenica di agosto sulla scia delle
altre celebrazioni mariane, tant’è che anche a Macerata lo si
festeggia il 30 agosto. Ciò confermerebbe un culto ed una
devozione popolare radicata in diverse aree del bacino
mediterraneo.
San Giuliano l’ospitaliere
in Como ha dato asilo a pellegrini, poveri ed ammalati. Ancor
oggi è un esempio da seguire e don Marco, l’attuale parroco, ne
sottolinea la valenza.
Anche questa è storia.
Prof. ALESSIO VARISCO
Storico dell’arte e saggista
Direttore "Antropologia Arte Sacra"
Pietro Barbo, di antica e nobile famiglia patrizia, nacque a
Venezia il 23 febbraio 1417 e morì a Roma, 26 luglio 1471.
Fu eletto Sommo Pontefice nel 1464, fu il 211° pontefice
della Chiesa cattolica, carica che ricoprì sino alla sua
morte. Paolo Pp II era uno dei nipoti di papa Eugenio IV e
la sua carriera ecclesiastica venne incentivata proprio
dall’elezione dello zio a Papa; da quel momento le sue
promozioni furono rapidissime: nel 1440 divenne cardinale,
nel 1459 fu nominato vescovo di Padova e il 30 agosto 1464
venne eletto Papa all'unanimità, come successore di papa Pio
II (Enea Silvio Piccolomini grande storico ed umanista,
scrittore di Commentari del suo tempo e patrocinatore
della sua Pienza, scrigno della sua lungimiranza, prodotta
come una vera –e forse unica- “città ideale”, nella dolce
Val d’Orcia).
Con la
sua azione politica tentò di mettere pace tra i rissosi
stati italiani. Di lui scrissero che era Formosus
laetissimo vultu, aspectuque iucundo. Paolo II era però
amante delle esteriorità, della magnificenza e soprattutto
dell'arte, inventò giochi e feste, organizzò numerose corse
di cavalli e persino di asini. Degno successore di Pio II in
quanto fece cambiare faccia a Roma, oltre alla numerazione
del suo predecessore –entrambi “secondi”-, Paolo II
incarnerà la sua tenacia nel far cessare gli atti di
nepotismo che dilagavano nella chiesa e che portarono a
l’illustre predecessore a scrivere:
«quand'ero solo Enea / nessun mi conoscea / Ora che son Pio
/ tutti mi chiaman zio».
Jacopo da Varagine viene anche Giacomo nasce a Varazze nel
1228 e muore nel 1298, è un frate domenicano, scrittore di
leggende e cronache nonché beato della Chiesa cattolica. Nel
1244 entra a far parte dell’Ordine Domenicano e nel 1265
diventò priore del proprio convento. Nel 1267 fu nominatore
provinciale per la Lombardia ed abbandonerà la carica nel
1285. Fu arcivescovo di Genova dal 1292 fino al 1298, anno
della sua morte; venne reso Beato da papa Pio VII nell’anno
1816.
Nel secolo XII la chiesa di San Giuliano venne ampliata e
ristrutturata con tre navate culminanti con l’abside
centrale e due absidiole al fianco, larghe la metà della
centrale. Rispetto all’attuale chiesa, la basilica era
arretrata verso monte. L’abside centrale e quella di destra
non sono oggi più individuabili, mentre alcune tracce
rimangono delle cappelle gentilizie della navata di
sinistra: trasformate in uffici sono parzialmente leggibili
all’interno della Cà d’Industria, anche grazie al fatto che,
durante i lavori di ristrutturazione recentemente attuati, è
emersa la monofora dell’ultima cappella. La planimetria del
1889 conservata nell’Archivio dell’Istituto ne è riprova.
Dell’absidiola, un tempo terminazione della navata di destra
-ora la chiesa è ad unica navata- vi è traccia nella torre
campanaria, di un sobrio stile romanico, la cui base è oggi
incorporata nel fabbricato ed è perciò visibile.
FOTOGRAFIE:
© ALESSIO VARISCO, Técne Art Studio
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