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Il complesso dell'abbazia di San Giuliano Ospitaliere in Pomario a Como

Hospitium benedettino, giovannita, agostiniano, ora civico

 

FOTOGRAFIE: Ex abbazia di San Giuliano in Pomario a Como

 

Fra’ Agostino Rossi il giorno 11 marzo dell’Anno del Signore 1467 scriveva «ai serenissimi duchi Bianca Maria e Galeazzo Maria Sforza» informandoli di aver conferito con Sua Santità Paolo Pp II[1] al fine di riservare l’antica Abbazia benedettina di San Giuliano in Pomario a Como a don Alluigi de Locarno. Paolo II è il pontefice che stabilì che il Giubileo dovesse esser indetto e regolarmente celebrato ogni venticinque anni anziché cinquanta, come invece prescrive la tradizione ebraica che rispetta ossequiosamente la Parola di Dio espressa in Levitico XXV ove «il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo»[2].

Il motivo dell’intervento di fra’ Agostino Rossi era dipeso dalla morte del Vescovo suffraganeo della città di Como e la risposta del pontefice faceva ben sperare «essendo assicurato della vacanza, si adattava a fare cosa che piaccia alle Vostre Eccelsitudini». Orbene bisogna riferire ai nostri tre lettori che il diritto di nomina del Vescovo di Como spettava a tre abati: quello di Sant’Abondio, di San Carpofaro e di San Giuliano in Pomario. In data 14 marzo i serenissimi duchi Sforza rispondono ad Agostino dichiarandosi soddisfatti del documento da lui inviato e gli impongono di eseguire quanto gli verrà ingiunto in seguito[3].

Salvatore Arena nel suo secondo volume “Storia dell’Ordine di Malta in Lombardia”, pubblicato nel maggio 1981, riporta nella nota numero 1 di pagina 169 «nel I volume ho notato che nell’ASMi mancano le cartelle relative alle commende del Lago di Como; qualche documento comense si trova in questa serie di atti». In questi giorni, dopo la consultazione di alcuni testi presso l’archivio storico diocesano milanese, abbiamo potuto appurare della presenza presso l’Archivio storico della Diocesi di Como (ASDCo) di un documento che contiene alcune precisazioni al riguardo. Sappiamo che l’antica abbazia benedettina durante il XIV e XV secolo subì un lento ed inesorabile impoverimento e che non cadde a pezzi poiché annessa alla struttura vi erano numerosi coltivi ed un ospedale che dava lustro all’intero rione di “Pomario”. “Pomario” letteralmente significa “pometo”, “frutteto”. I “sangiulianesi” venivano detti “patatat” anche se come dicono i comaschi e un loro poeta dialettale: «te ringrazi pomm de tera / t’eet salvaa’ i gent de la famm / in temp de guera…».

Occorre ricordare che il luogo fu sempre adibito e scelto per insediamenti religiosi di prim’ordine: qui ebbe sede l’Abbazia dei Benedettini, poco distante vi fu il monastero di San Lorenzo delle monache benedettine e, dirimpetto ad esso, vi fu l’ospedale di San Gottardo. Insomma il “cuore” orante e pulsante della vita spirituale comasca.

La storia del “Borgo di San Giuliano in Pomario”, il nome del quartiere è dato dalla presenza di un monastero con annesso hospitium, è antichissima. La presenza dell’uomo in Como è confermata –proprio qui alle falde della montagna di Brunate- sull’altura orientale della convalle, oggi denominata “Pomario” o “San Giuliano”, già dall’età del bronzo da numerosi sepolcreti che vengono rinvenuti durante l’edificazione di alcuni palazzi e la demolizione di antichi edifici. Neppure un secolo fa venne alla luce una tomba, formata dalla solita cassetta in lastre di pietra e contenente il cinerario di terracotta che venne, fortunatamente, estratto integro: è la tipica urna dell’Età del bronzo databile al X sec. a.C. Le dimensioni del vaso sono di una ventina di centimetri, sia di altezza che in larghezza, e di base neppure dieci. La modalità decorativa è abbastanza semplice: sulla spalla e sotto il labbro evidenti decorazioni a solcature, con motivi di triangoli e linee. Tutti questi reperti vennero studiati da don Santo Monti negli ultimi giorni della sua esistenza ed è in ossequio a queste sue scoperte che la prosecuzione della via Pessina è oggi a lui dedicata.

I numerosi ritrovamenti confermano pertanto che i primi abitanti della convalle ove ora sorge Como si determinarono proprio nel Borgo di Pomario, nei pressi del complesso di San Giuliano l’Ospitaliere. Ciò si deve –quasi certamente- ad una posizione geografica davvero fortunata, ove durante tutto l’arco della giornata il sole ricopre i coltivi ed un tempo più fonti approvvigionavano e circoscrivevano i confini territoriali. Terreni fertili ed acque sono fra i motivi principali di un così antico insediamento. Il Pomario si scorge dal lago in quanto risulta leggermente sovralzata rispetto alla piana della convalle, caratteristicamente caratterizzato da quel distendersi –parrebbe- ai piedi del colle di Brunate, che da tempi antichissimi contemplava tre paludi. La ricchezza di acque, il Borgo di San Giuliano aveva a sua disposizione “la Moja” (a mollo) che era alimentata dal torrente che scende dal monte Uccelera e che in onore del console romano che lo arginò prese il nome di Valduce. Questo luogo un tempo era percorso da camminamenti campestri, alternato da numerose e zampillanti fonti sorgive. Dalla Prudenziana scendeva (lungo l’attuale via Rezzonico) il torrente Sorga; poco lontano, in aperta e soleggiata piaggia scorreva un’altra fonte, poi detta dei Benedettini, dato che attraversava il monastero dei Cluniacensi. Oggi questa fonte, se pur di ben ridotta portata, scorre ancora all’interno del cortile della Cà d’Industria, ed è visibile soltanto alzando la botola di un pozzo. Benedetto Giovio, nei suoi Carmi, la chiamò Lacustra, perché scendendo a valle formava un ridotto d’acqua. Ancora nel secolo scorso le acque di questa fonte furono oggetto di trattativa tra i proprietari ed i vicini coloni, che ambivano servirsene per irrigare i loro campi. Più a valle, ai piedi del borgo, vi era il Fonte di San Lorenzo che i nostri avi chiamavano Rivellino, poiché le sue acque scorrendo lambivano la Torre Rotonda del Castello, per poi sfociare anch’esse nel torrente Valduce. Una mappa del 1670, appartenuta a Giovan Battista Giovio, illustra le floride coltivazioni che circondavano la chiesa di San Giuliano: a monte la vigna delle monache e quella di Santa Pudenziana; a valle la vigna di San Lorenzo ed il campo di San Gottardo; a levante l’estesa campagna di Santa Croce, che, partendo dalla chiesa dei frati zoccolanti, risaliva la china sino alla Badirada.

A monte la campagna è delimitata dall’antica Strada di Zezio, ed a valle dal torrente Valduce. Situazione pressoché analoga si trova registrata nelle tavole del Catasto Teresiano e tale rimarrà sino alla metà del sec. XIX, quando, con la rivoluzione industriale, alcuni terreni agricoli verranno occupati da stabilimenti tessili e tintori, che mostreranno solenni le loro svettanti ciminiere.

In questo scenario campestre aperto e soleggiato e in presenza di orti e frutteti, il luogo venne definito Pomario: lavori agricoli e pastorizia si incrementarono sempre più nel tempo, assegnando nella tradizione al borgo la definizione di “Borgo degli ortolani”. I coloni con solerzia hanno sempre lavorato i campi, spargendo concime e stallatico.

«La povertà è invece palese nelle chiese di montagna; pure molto poveri sono gli ospedali, indice di un effettivo esercizio dei propri obblighi umanitari. Notevole è il numero dei sacerdoti che, secondo le prescrizioni vaticane, dichiararono la loro impossibilità di pagare le decime; simile è la situazione per alcune religiose. [...] Le principali famiglie nobiliari di Como e della diocesi hanno loro membri disseminati in tutto il clero, il che rispecchia l’abitudine allora diffusa di immettere i cadetti nella carriera ecclesiastica. Sono presenti alte parentele, quali ad esempio i Della Torre di Rezzonico, e persino i conti del Seprio. La maggior parte degli ospedali si trova in Como; solo quattro sono elencati nella campagna. Tale squilibrio è da riferirsi al fatto che gli ospedali medioevali non accoglievano solo infermi e indigenti, ma ospitavano i viandanti, con funzione, cioè, di ospizi xenodochi. Da Como passavano le strade dirette ai valichi alpini; l’intenso traffico, quindi, giustificava una così intensa presenza ospedaliera. Nella campagna funzioni ospedaliere, d’altronde, erano largamente assolte da monasteri e da case dell’ordine degli Umiliati, largamente presenti lungo le grandi vie di traffico»[4].

Apparentemente non vi sono fonti dirette che attestino la presenza della Sacra Religione di San Giovanni di Gerusalemme durante il XIII-XIV secolo in Como -per quanto concerne la città, seppure in Diocesi si debba registrare la presenza di Giovanniti presso Montesordo, Pieve di Fino, a Cermenate-, ma la presenza dei Benedettini –già dal X secolo in Como a Pomario-, ordine del Beato Gerardo Sasso fondatore del primigenio hospitium dinanzi il Santo Sepolcro e l’Anastasis in Gerusalemme e da cui si svilupparono gli Ospitalieri di San Giovanni. L’esistenza dell’Ordo Sancti Benedicti in Como fa certamente supporre, unitamente al relativo ospedale comasco, una presenza anche dei Giovanniti.

Diversi gli studi sulla rete di ospedali presenti in territorio comasco: quello di San Gottardo, di san Martino di Zezio[5] ed il nostro di San Giuliano Ospitaliere. Pietro Pensa nella sua “Storia della diocesi di Como” sottolinea che «dipendenti dal Capitolo comense erano: l’abate e il convento benedettino di sant’Abondio, l’abate e il convento benedettino di san Carpoforo, l’abate e il convento benedettino di san Giuliano e l’ospedale, il convento femminile di san Lorenzo fuori mura, il convento benedettino di Cernobbio, i monasteri cluniacensi di Olgiate e Vertemate»[6].

Le famiglie di alto lignaggio inviavano i loro figli cadetti presso la Sacra Religione di San Giovanni di Gerusalemme e non è un caso che –confermato da vari documenti- l’antica abbazia durante un periodo di crisi per la Diocesi e per l’intera Chiesa, nel XV e XVI secolo, venne “data in commenda”. Il motivo della soppressione nel 1451 dell’abbazia con conseguente riduzione a Commenda data a prelati secolari è dipeso dalla scarsità di vocazioni in cui versava l’epoca dell’Umanesimo. L’interesse manifestato da alcuni presbiteri nell’ottenere la Commenda era teso a disporre dell’ospedale di San Giuliano e dei bei luoghi circostanti l’antico monastero. L’intero complesso subì comunque un progressivo decadimento, di tanto in tanto avversato da iniziative personali di fedeli e da qualche lascito.

Questo lento ed inesorabile crollo delle antiche e belle strutture architettoniche non fece perdere la sua peculiare –ed iniziale- vocazionalità: l’hospitale non cessò. Como è segnata dalla presenza, sintomatica, dell’Ordine degli Umiliati che confermerebbe una presenza anche dei Giovanniti presso la struttura benedettina.

L’osteria di via Monti era un tempo la locanda, posta al pian terreno, di un antico hospitium annesso alla struttura benedettina; questa seconda struttura ospedaliera dava ospitalità ai parenti degli ammalati gravi. Un’ulteriore conferma dell’obsequium pauperum -peculiarità cardine del Sovrano Ordine Ospitaliero di San Giovanni- è la presenza di una struttura di accoglienza non solo degli ammalati, ma persino delle loro famiglie; tutela dei Signori Ammalati e dei loro cari.

 

La dedicazione a San Giuliano Ospitaliere

Tutt’altro che secondaria è la dedicazione della primigenia Abbazia benedettina a San Giuliano l’Ospitaliere. A livello etimologico “Giuliano” significa, dal latino, appartenente alla “gens Julia”, quindi dell’illustre famiglia romana; è il protettore degli albergatori, dei carpentieri, dei viaggiatori ed è il patrono di Macerata. San Giuliano è venerato a Sora e Atina il 27 gennaio; la Chiesa celebra anche San Giuliano di Le Mans, vescovo lo stesso giorno; a Parigi è presente la chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre.

Interessante sottolineare, anche ai fini iconografici per la ripresa e l’evoluzione che segnerà sull’arte europea, che secondo la “Leggenda Aurea” di Jacopo da Varagine[7] fu vescovo di Cemmonia l’odierna Mans (“Cenomanensis episcopus”). Si dice che San Giuliano fosse quel Simone il lebbroso che Gesù invitò al convito, designato dagli Apostoli vescovo di Cemmonia allorquando il Maestro ascese al cielo. Giuliano, ricolmo di molte virtù, resuscitò tre morti e poi se ne andò in pace alla Casa del Padre. Questo Giuliano vescovo è quel santo che i pellegrini invocano per trovare buona ospitalità poiché fu accolto da Gesù quando era lebbroso.

In realtà si crede che fosse anche quell’altro Giuliano che uccise il padre e la madre. Un giorno questi, giovane gentile, volle cacciare un cervo, ma l’animale si rivolse a lui (“subitus cervus versus eum divino nutu se vertit”): «Tu mi stai dando la caccia, ma sai che sarai l’assassino di tuo padre o di tua madre?». Il giovane udendo ciò rimase sbigottito e, perché non avvenisse quanto detto dal cervo, lasciò ogni cosa e partì. Giunse in una contrada e si accostò ad un principe. Quest’ultimo che si portò valentemente in ciascun luogo e battaglia venne creato cavaliere nel palazzo di quel principe che gli diede una grande castellana vedova. Giuliano ricevette il castello per dote e qui si trasferì abbandonando i suoi. Nel frattempo il padre la madre di Giuliano, preoccupati della perdita del figlio che non fece più ritorno a casa, si misero ad andare a cercarlo nel mondo. In ogni parte cercarono il loro figliolo, sennonché giunsero al castello ove Giuliano era il signore.

 

Il complesso di San Giuliano Ospitaliere in Como

Oggi due lapidi sepolcrali custodite al Civico Museo di Como testimoniano la presenza di un primigenio luogo di culto, con annesso un camposanto, dedicato a San Giuliano sin dal sec. VI d.C.. La prima lapide, risalente all’anno 522, indica il nome di un certo “Renato”, oltre ad indicare il luogo di San Giuliano. Un’altra lastra, estremamente interessante, reca una scritta risalente al VII secolo e raffigura due agnelli che si abbeverano ad un cantare ansato. Questa bella lastra reca un’iscrizione tombale da cui possiamo riconoscere un nome di donna –Giuntula- il figlio Basilio e il nipote Giuntione. Questo epitaffio si conclude con una intercessione al custode del San Giuliano affinché la tomba non sia manomessa sino al giorno del Giudizio universale. Il testo inciso nella lapide confermerebbe l’esistenza di un antichissimo sito dedicato a San Giuliano Ospitaliere in Como, di un addetto al culto –presbitero- e di un cimitero. L’antico San Giuliano doveva esser un mero oratorio, una semplice struttura per pratiche devozionali, poiché non esiste alcuna documentazione scritta che attesti l’esistenza di una chiesa.

Il più antico documento secondo diversi storici che confermerebbe l’esistenza di una chiesetta di San Giuliano è del 1163. Pietro Gini indicano l’esistenza di un atto di donazione –del gennaio 1151- a favore della chiesa di San Fedele stipulato “in portico Ecclesia S. Juliani de Cumis”; ciò farebbe supporre che la chiesa di San Giuliano esistesse già nella prima metà del XII secolo. In questo antico rogato è anche fatta particolare menzione di un ospedale per i poveri annesso all’edificio chiesa. In merito alla fondazione di un centro di cura d’anime, bisognerebbe risalire attorno all’anno 1055, durante l’episcopio di Bennone -45° vescovo di Como–, lo stesso anno in cui l’imperatore Enrico III conferiva al vescovo di Como la donazione del demanio cittadino. Venne assegnato ai monaci Benedettini la conduzione del monastero annesso alla chiesa unitamente all’hospitium; quest’Ordine monastico aveva già la cura di Sant’Abbondio e San Carpoforo. La gestione fu poi affidata ai cluniacensi.

Le antiche strutture romaniche in pietra moltrasina[8], sono oggi sostituite da cotto di laterizio e per questo successivamente intonacato durante la fase barocca. La zona absidale doveva essere diversa, ciò che è rimasto è solo il campanile, la concomitanza di questo presso l’area presbiteriale confermerebbe la prassi degli Ordini benedettini che prevedeva al momento dell’Elevazione il suono delle campane. Questo compito spettava al monaco più giovane che si alzava dal coro per andare a suonare le campane. Il campanile è tornato al suo antico splendore dopo i restauri iniziati nel 1978, oggi possiamo ammirare le antiche monofore ad arco a tutto sesto, che purtroppo vennero otturate nel sec. XVII per sostenere il peso della parte superiore, di epoca barocca e visibile dal restauro conservativo del XX secolo. All’interno della torre campanaria, rettangolare, si possono notare affreschi del XIV secolo, ricordati anche da Benedetto Giovio, con al centro un Santo paludato dalle braccia spalancate nell’atto di benedire i devoti. Questi stupendi affreschi sono purtroppo deteriorati in quanto durante il XX secolo danneggiati per consentire l’apertura di un passaggio che unisse il vicino locale (adattato a palco scenico di un piccolo teatro) al camerino riservato degli attori.

Alcuni ritengono che presso la chiesa di San Giuliano in Pomario vi siano i Corpi di un Beato Federico e Compagni che andando in bussola a San Giacomo di Galizia e a San Pietro in Roma fossero morti ed ivi sepolti, come mostra una pittura antichissima. Naturalmente si tratta di una fantasia popolare alimentata da Benedetto Giovio che nel 1532 aveva scritto: «credono certuni che il beato Federico, sepolto coi suoi compagni in questa chiesa, come l’indica un dipinto con la leggenda, sia l’imperatore Federico Barbarossa. Io non divido il loro parere sopra ciò, perrocché l’imperatore Federico morì in una spedizione d’oltre mare come l’accertano tutti gli storici che hanno lasciato memoria delle sue gesta. Costui sarà stato una brava persona che con parecchi compagni avrà peregrinato a San Giacomo di Galizia e alla chiesa de’ SS. Apostoli Pietro e Paolo a Roma; e invero quella pittura rappresenta il B. Federico e i compagni in abito di pellegrini (come costumano i forestieri che vanno a Roma), quasi condotti per mano dagli Apostoli al cospetto del Redentore; quelli poi che sono sotterrati nel cimitero, come spiegano i cartelli, non trovo di poterli credere morti insieme, a meno che per avventura non siano morti di peste, il che succede spesso a’ viandanti; e lasciato come si suole qualche tesoro a questo monastero, abbiano disposto che vi si facesse un monumento di pietra e la pittura. Comunque sia è una stranezza il cercare fatti della città nostra contro la verità della storia, quando soprattutto non vi è un’in segna, né il nome dell’imperatore».

 

 

Soltanto in anni recenti è stato segnalato come le strutture della chiesa di S. Giuliano comprendano ampi resti della basilica benedettina. Il merito va ascritto a Mario Longatti, che ne diede notizia nel 1978 al convegno celebrativo del centenario della Società Storica Comense. Si tratta in sostanza del campanile impostato sull’absidiola meridionale, ma anche di buona parte della navata settentrionale, inglobata nel convento. La chiesa fondata, o meglio riformata, dal vescovo Bennone a metà del sec. X può essere immaginata, sulla scorta dei pochi resti, ma anche della documentazione d’archivio più antica, anteriore all’insediamento delle monache, come una basilica a tre navate, suddivise in sette campate, coperte da tetto ligneo salvo forse le campate absidali. La navata centrale risulterebbe larga circa il doppio di quelle laterali, secondo una proporzione diffusa e coerente con i caratteri del romanico comasco. Alcuni resti di archi e aperture sono stati messi in luce nel corso di lavori recenti. In particolare è stata evidenziata la struttura del campanile, esternamente irriconoscibile vent’anni fa: si tratta di una torre massiccia nelle proporzioni, con monofore e grandi aperture archeggia te, con ghiere di tufo, in quella che fu la cella campanaria, poi tamponata allorché il campanile, forse a fine Seicento, fu sopralzato di un piano. All’interno del campanile, tra gli altri re- sii dell’antica disposizione, si sono conservati alcuni lacerti d’affresco, di età trecentesca, ma in parte disposti su due strati, e dunque da collocare lungo un arco di tempo non brevissimo. L’impianto basilicale con campanile impostato su un’abside laterale è assai diffuso in area lombarda e, giusta l’ipotesi di Longatti, caratteristico delle chiese conventuali, per ragioni di funzionalità liturgica. La chiesa benedettina di S. Benedetto di Valperlana costituisce forse, anche per le proporzioni, l’esempio più chiaro di come l’antica S. Giuliano poteva apparire.

La recente parrocchia deriva dall’impianto dell’antico convento delle monache Agostiniane di S. Andrea di Brunate, insediatesi nella vecchia abbazia da tempo deserta di monaci, fecero dapprima costruire un chiostro adeguato alle rigide regole della clausura controriformista, poi provvidero alla chiesa, erigendo nel pieno Seicento un edificio magnifico e ricco di decorazioni.

Il passaggio della chiesa di 5. Giuliano alle monache avvenne, come sappiamo, nel 1592 per concessione dell’abate commendatario Tobia Peregrini. La circostanza è di qualche interesse, poiché il Peregrini era uno degli uomini di fiducia in Como del cardinale Tolomeo Gallio, per conto del quale seguiva numerosi lavori: tra questi la prima costruzione del Collegio Gallio, la ristrutturazione della basilica di S. Abondio, la prima fase della costruzione della cappella Gallio in S. Giovanni Pedemonte. Per quanto risulta, nella prima fase il Peregrini non fece venir meno il suo interessamento alle vicende del nuovo monastero: sembra quindi ragionevole ipotizzare che l’adattamento della vecchia abbazia sia stato impostato nell’ambito del medesimo ambiente che serviva il cardinale di Como. Una riprova di questa ipotesi viene da un documento del 14 gennaio 1594 (notaio Giulio Raimondi), in cui Silvio Peregrini, procuratore delle monache e del fratello mons. Tobia, si accordava con il muratore Pietro del Fra di Vacallo per fare una serie di lavori, volti a realizzare davanti alla chiesa una piazza, secondo la disposizione che, sostanzialmente, vediamo oggi. Che il muratore risulti documentato nel 1580 a Frascati è una curiosità, ma utile per rievocare quel mondo di costruttori girovaghi che fu l’ambiente edilizio comasco: aver lavorato a Frascati significava certamente aver lavorato per architetti di primo piano, ed essere passati per Roma, la città dove, avrebbe detto un magistro, “gli sciochi si rafinano, insomma qua è dove s’apre il spirto”. Ma ancor più curiosa, nel documento relativo alla nuova piazza, è la clausola per cui il Del Fra avrebbe avuto “habitacolo in Como a casa del Architetto Antonio Piota”: ovvero di quel personaggio, onnipresente nei cantieri comaschi del secondo Cinque cento, che era anche una vecchia conoscenza di Tobia Peregrini e di Tolomeo Gallio. Che il Piotti abbia in qualche modo progettato i primi lavori del monastero di S. Giuliano non è detto esplicitamente dalle carte finora note: ma è un’ipotesi proponibile, che potrebbe essere tenuta in conto per valutare una fabbrica condotta lentamente, per parti, nei successivi decenni, e assai rimaneggiata in seguito, in particolare dopo la soppressione con l’adattamento a sede della Ca’ d’Industria. In ogni caso i caratteri del chiostro sono assai austeri, ma si potrebbe proprio dire semplici, con archi su colonne doriche e pareti nude, che forse un tempo ebbero qualche ordinanza dipinta. L’elemento di maggior spicco sembra il por tale, tipica commistione di elementi del repertorio classicista, con la gracilità di forme consueta al passaggio tra Cinque e Seicento.

 

La chiesa monastica del Seicento

Unico dato accertato sulla chiesa barocca è la data di Costruzione, compresa tra il 1674 e il 1679, con la solenne riconsacrazione nel 1683. Non è molto, ma si tratta di anni importanti per la produzione architettonica locale. Sono infatti gli anni in cui Benedetto Odescalchi diviene Papa col nome di Innocenzo XI, e la sua famiglia in Como segue una serie di fabbriche di grande livello, tra cui in particolare i completamenti del Duomo e, gioiello perduto, la cappella di famiglia in S. Giovanni Pedemonte. Se per ora non si possono produrre circostanze precise a chiarire le vicende di committenza della nuova chiesa, possiamo soffermarci su un elemento preciso:

nelle fabbriche degli Odescalchi ricorre il nome prestigioso dello stuccatore Agostino Silva di Morbio, che fu anche il decoratore della nuova  San Giuliano, in cui lasciò la sua firma sul l’ala dell’angelo a sinistra dell’altare di S. Agostino.

La chiesa seicentesca presenta la tipica struttura delle chiese dei monasteri femminili della piena età barocca, per cui lo sdoppiamento tra chiesa interna e chiesa esterna, che nei celebri esempi di primo Cinquecento come il S. Maurizio al Monastero Maggiore di Milano (a Como si potrebbe citare S. Cecilia) aveva dato spazi equivalenti, quasi gemelli, si era ormai risolto in una precisa gerarchia tra una chiesa esterna magnifica, luogo deputato per le esercitazioni architettoniche sul tema della pianta centrale, e una chiesa interna ridotta a semplice coro dietro la parete dell’altare. Nel caso di S. Giuliano la chiesa esterna diviene un ottagono svasato, ornato da ordinanze in stucco ricche di fogliami e figure angeliche e reso dinamico dalla leggera irregolarità del poligono. La disposizione è ancor oggi ben leggibile, anche se l’abbattimento del muro diaframma, unificando spazialmente il presbiterio e il retrocoro delle monache, ha rafforzato l’asse longitudinale dell’impianto. Soltanto se si ricorda la disposizione antica si osserva la divisione tra presbiterio e coro, comunque marcata dalla sequenza delle volte, e si può risalire all’originaria spazialità centrica della chiesa.

Se il nome dell’architetto è ignoto, tanto che si è pensato ad una attribuzione al Silva sulla scia di un’ipotesi che vorrebbe spesso gli stuccatori attivi anche come architetti, penso non si dovrebbe trascurare la circostanza che vuole invece nelle fabbriche coeve degli Odescaichi onnipresente Gerolamo Quadrio, allora architetto del Duomo di Milano e creatore di magnifiche chiese monastiche, costruite su intellettualisti che variazioni attorno alla centralità e alla combinazione di poligoni.

 

Le chiese monastiche del Seicento erano teatro, la parola non è scelta a caso, di una meritoria competizione per la maggior bellezza dell’apparato e delle opere d’arte. Nel caso di Como basti ricordare a inizio secolo la gara tra la pala del Gentileschi a S. Cecilia e quella del Morazzone alla Trinità; nella seconda metà del secolo la competizione si sposta sulla ricchezza dell’apparato in stucco, per cui S. Giuliano si confrontò, ad esempio, con il complesso barberiniano di S. Cecilia.

Determinanti per la definizione architettonica della chiesa di 5. Giuliano sono infatti gli stucchi, opera di due artisti molto rappresentativi quali Agostino Silva e Giampietro Lironi, entrambi ticinesi: di Morbio Inferiore il Silva, di Vacallo il Lironi. Ancora una volta, si tratta di esponenti della infinita schiera di artisti migranti, memori di esperienze lontane.

 

Nel 1856, durante la demolizione di un muro di casa Coduri, venne alla luce una lapide (poi depositata al museo civi co di Como) con la seguente scritta, che riportiamo nel testo originale, con la versione italiana: «D.M. / cariosam vetustatem / loci miseratus / PROTASIUS PORRUS / minorista Augusta Pretoria a lamiis sectandis rediens / Faciebat / MDXII»[9].

A notizia si ricorda che il comasco Protasio Porro, erudito di lingue orientali, teologo e poeta, fu inquisitore domenicano ad Augusta Pretoria (Aosta) ma rientrato a Como indossò il saio francescano. Morì nel convento di San Francesco a 83 anni nel 1535. Fra i tanti abati secolari succedutisi si ricordano Filippo Simonetta di Milano, il comasco Paolo Giovio, vescovo di Nocera, che nel 1541 rinunciò alla Commenda in favore del nipote Alessandro, figlio di Benedetto.

Nel 1594, come ricorda lo storico Giuseppe Rovelli, il commendatario Tobia Pellegrino, vicario generale del vescovo Feliciano Ninguarda, iniziò una serie di restauri, concedendo l’uso del monastero alle monache Agostiniane di Sant’Andrea di Brunate. Qui trasferendosi, esse portarono mobili e suppellettili, ma soprattutto vollero trasportare le spoglie di Maddalena Aibricci. I resti mortali furono deposti in una piccola ur na, dopo che Tobia Pellegrino, recatosi a Brunate, ebbe fatta la ricognizione, a seguito dell’apertura del sarcofago.

I resti di Maddalena Albricci rimarranno per due secoli in San Giuliano per poi essere custoditi da una nobile famiglia comasca. Dopo la beatificazione da parte di Pio X avvenuta l’il dicembre 1907, i suoi resti verranno recuperati dal vescovo Mons. Macchi e deposti sotto l’altare di Sant’Ambrogio in Cattedrale. Nel maggio 1998, dopo una nuova ricognizione effettuata presso il monastero della Visitazione e dopo una sosta di due giorni in San Giuliano, la salma venne riportata nella chiesa di Brunate.

Le opere di ristrutturazione iniziate da Tobia Pellegrino proseguirono con solerzia su iniziativa delle monache in tutto il monastero. La chiesa venne ridimensionata secondo l’attua le struttura e l’altare venne posto al centro, consentendo così di dividere le monache dai fedeli durante le funzioni. Come scrisse lo storico Primo Tatti nei suoi “Annali Sacri”, le monache ornarono l’interno ponendo nel coro due busti raffiguranti Santa Rita da Cascia (1381-1457) e Santa Chiara da Monte Falco (1268-1308). Installarono inoltre quattro grandi statue nelle nicchie sovralzate, plasmate da Pietro Lironi, raffiguranti personaggi dell’Ordine agostiniano e precisamente: due ve scovi Sant’Agostino (354-430) e San Tommaso da Vifianova (1488-1555), quindi San Nicola da Tolentino (1245-1305) e San Giovanni da San Facondo (1430-1479). All’inizio del seco lo XX, si pensò che rappresentassero Sant’Abbondio, San t’Ambrogio, San Ludovico e San Nicola; saggiamente in tempi recenti vennero eliminate le scritte con tali dedicazioni.

Fra il 1669 e il 1692 risultano presenti in questo convento 45 monache, 7 converse e 1 novizia.

 

San Giuliano Ospitaliere e Malta

Anche presso l’Isola di Malta esiste una chiesa, parrocchiale, dedicata a San Giuliano l’Ospitaliere, l’interesse verso questo santo venerato dalla Chiesa è confermato anche dal nome che in maltese si dice San Ġiljan.

Lungo la costa, a settentrione della capitale di La Valletta, sorge una chiesa in un quartiere che è rinomato per il turismo e soprattutto per i ristoranti accentrati nell'area detta Paceville. Bisogna sottolineare che sino al XIX secolo l’area oggi occupata da San Giuliano era essenzialmente disabitata, fatta eccezione per l’attuale Spinola Palace, l’antica chiesa e le modeste, ma pittoresche, abitazioni dei pescatori. Nella zona di Mensija vennero però rinvenute delle tracce di carri risalenti all’Età del Bronzo, all’interno del distretto di Tal-Ballut, l’area del sito è ora occupata dalla Cappella del Convento del Sacro Cuore.

Una primigenia chiesina intitolata a “San Giuliano l’Ospitaliere” è stata costruita nell’anno 1580. La chiesa venne ricostruita interamente nel 1593 poiché troppo misera ed inadatta a contenere gli abitanti del quartiere. Il Vescovo Tommaso Gargallo fece la sua visita pastorale durante l’anno 1601, ciò è emerso da ultime ricerche. Il tempio cristiano subì una nuova trasformazione nel 1730 quando vennero demolite gran parte delle mura e riedificata, anche se le pitture capitolari rimasero comunque quelle originarie. L’ultima riorganizzazione del tempio cristiano è avvenuta nel XIX secolo, periodo in cui la chiesa diventò parrocchia.

Questa zona dell’Isola di Malta ha assunto il nome dal santo patrono, San Giuliano, conosciuto anche col nome di “Giuliano il Povero” o “Gliliano Ospitaliero”. E’ interessante notare come fosse esemplificativo ed importante per i Giovanniti questa titolazione, tanto da rendere, a livello toponomastico, una particolare cittadina dell’isola melitese. Prima della riforma del Calendario dei Santi a San Giuliano era dedicato il 27 gennaio, di questa data troviamo conferma anche nella “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine. Oggi viene invece celebrato il 12 febbraio, sebbene nelle tradizionali feste maltesi venga invece festeggiato nell’ultima domenica di agosto sulla scia delle altre celebrazioni mariane, tant’è che anche a Macerata lo si festeggia il 30 agosto. Ciò confermerebbe un culto ed una devozione popolare radicata in diverse aree del bacino mediterraneo.

San Giuliano l’ospitaliere in Como ha dato asilo a pellegrini, poveri ed ammalati. Ancor oggi è un esempio da seguire e don Marco, l’attuale parroco, ne sottolinea la valenza. Anche questa è storia.

Prof. ALESSIO VARISCO

Storico dell’arte e saggista

Direttore "Antropologia Arte Sacra"

 


 


[1] Pietro Barbo, di antica e nobile famiglia patrizia, nacque a Venezia il 23 febbraio 1417 e morì a Roma, 26 luglio 1471. Fu eletto Sommo Pontefice nel 1464, fu il 211° pontefice della Chiesa cattolica, carica che ricoprì sino alla sua morte. Paolo Pp II era uno dei nipoti di papa Eugenio IV e la sua carriera ecclesiastica venne incentivata proprio dall’elezione dello zio a Papa; da quel momento le sue promozioni furono rapidissime: nel 1440 divenne cardinale, nel 1459 fu nominato vescovo di Padova e il 30 agosto 1464 venne eletto Papa all'unanimità, come successore di papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini grande storico ed umanista, scrittore di Commentari del suo tempo e patrocinatore della sua Pienza, scrigno della sua lungimiranza, prodotta come una vera –e forse unica- “città ideale”, nella dolce Val d’Orcia).

Con la sua azione politica tentò di mettere pace tra i rissosi stati italiani. Di lui scrissero che era Formosus laetissimo vultu, aspectuque iucundo. Paolo II era però amante delle esteriorità, della magnificenza e soprattutto dell'arte, inventò giochi e feste, organizzò numerose corse di cavalli e persino di asini. Degno successore di Pio II in quanto fece cambiare faccia a Roma, oltre alla numerazione del suo predecessore –entrambi “secondi”-, Paolo II incarnerà la sua tenacia nel far cessare gli atti di nepotismo che dilagavano nella chiesa e che portarono a l’illustre predecessore a scrivere: «quand'ero solo Enea / nessun mi conoscea / Ora che son Pio / tutti mi chiaman zio».

[2] «Conterai pure sette settimane di anni: sette volte sette anni; e queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Poi, il decimo giorno del settimo mese farai squillare la tromba; il giorno delle espiazioni farete squillare la tromba per tutto il paese. Santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e ognuno di voi tornerà nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non seminerete e non raccoglierete quello che i campi produrranno da sé, e non vendemmierete le vigne incolte. Poiché è il giubileo; esso vi sarà sacro; mangerete quel che i campi hanno prodotto in precedenza. In questo anno del giubileo ciascuno tornerà in possesso del suo. Se vendete qualcosa al vostro prossimo o se comprate qualcosa da lui, nessuno inganni il suo prossimo. Quando comprerai del terreno dal tuo prossimo, stabilirai il prezzo in base agli anni passati dall'ultimo giubileo, ed egli venderà a te in ragione degli anni in cui si potrà avere raccolto». (Lv 25, 8-15).

[3] Per ulteriori approfondimenti si veda:  S. Arena, Storia dell’Ordine di Malta in Lombardia. 1981 pp. 167-170.

[4] P. PENSA, Dall’età carolingia all’affermarsi delle Signorie. in Aa.Vv., Storia religiosa della Lombardia, Diocesi di Como. Ed. La Scuola. p.72.

[5] Id., Geografia diocesana nel 1295 in Aa.Vv., Storia religiosa della Lombardia, Diocesi di Como. Ed. La Scuola. p.81.

[6] P. PENSA, Op. Cit. p.81.

[7] Jacopo da Varagine viene anche Giacomo nasce a Varazze nel 1228 e muore nel 1298, è un frate domenicano, scrittore di leggende e cronache nonché beato della Chiesa cattolica. Nel 1244 entra a far parte dell’Ordine Domenicano e nel 1265 diventò priore del proprio convento. Nel 1267 fu nominatore provinciale per la Lombardia ed abbandonerà la carica nel 1285. Fu arcivescovo di Genova dal 1292 fino al 1298, anno della sua morte; venne reso Beato da papa Pio VII nell’anno 1816.

[8] Nel secolo XII la chiesa di San Giuliano venne ampliata e ristrutturata con tre navate culminanti con l’abside centrale e due absidiole al fianco, larghe la metà della centrale. Rispetto all’attuale chiesa, la basilica era arretrata verso monte. L’abside centrale e quella di destra non sono oggi più individuabili, mentre alcune tracce rimangono delle cappelle gentilizie della navata di sinistra: trasformate in uffici sono parzialmente leggibili all’interno della Cà d’Industria, anche grazie al fatto che, durante i lavori di ristrutturazione recentemente attuati, è emersa la monofora dell’ultima cappella. La planimetria del 1889 conservata nell’Archivio dell’Istituto ne è riprova. Dell’absidiola, un tempo terminazione della navata di destra -ora la chiesa è ad unica navata- vi è traccia nella torre campanaria, di un sobrio stile romanico, la cui base è oggi incorporata nel fabbricato ed è perciò visibile.

[9] «D.M. / deplorando la decrepita vecchiezza del luogo / PROTASIO PORRO / minore francescano / ritornando dalle persecuzioni delle streghe in Aosta / restaurava l’anno / 1512».

 

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