La Danza della Croce
La madonna del Phileremo, LA RISURREZIONE DI Piero della Francesca,
IL CRISTO MORTO DI Holbein e L'INCREDULITA' DI Caravaggio
QUI SOPRA:
aNGELO VACCARELLA, VERGINE DEL pHILEREMO, 2009.
Il momento topico delle celebrazioni del
cristiano coincide con la Settimana Santa, non a caso nei primi
secoli della diffusione del cristianesimo l’unica festa era la
Pasqua. Ci si afferma cristiani nel segno della Croce
e lo strumento di tortura, di condanna capitale per i romani, è
divenuto il riscatto del peccato e l’ancora
della Salvezza.
Nel giorno della Risurrezione, il terzo dopo il
venerdì -che rappresenta l’ora delle tenebre, la theologia
crucis-, ciascuno può cantare finalmente “Christos anesti”
(basterebbe andare in questi prossimi giorni nelle isole del
Dodecaneso, o per le vie di un rione di Atene, all’uscita da una
chiesa ortodossa e sentiremmo scambiarsi affezionati auguri
pasquali in lingua greca). Si pensi che nella liturgia
ambrosiana il celebrante intona “Cristo è risorto” per
ben tre volte, sempre aumentando il tono della voce, sino a
gridarlo.
Ciò che sconcerta e rinfranca è l’amore di un
Dio che si fa carne, che diviene corpo della storia, che
come dice Sant’Ambrogio “non disdegnò di passare attraverso
l’utero di una donna”, la Theotokos. Venne difatti il Logos,
che esprime la misura delle cose, che è la Vera Luce e l’Acqua
Viva. Dal ventre, dal grembo nacque un Bimbo che passò dalle
acque del parto a quelle del Giordano, dal Legno del Presepio
sino alla bottega di casa ed in ultimo alla Croce. Ma la
Crux è gemma preziosa, diviene strumento di Amore, non di
sconforto e di abbandono.
Monsignor Luigi Serenthà, rettore magnifico dei
Seminari Milanesi, docente di cristologia, scomparso nel
settembre 1986, così cantava in una sua celebre poesia: «È
Natale, Signore./ O è già subito Pasqua?/ Il legno del presepio
è duro,/ come il legno della croce./ Il freddo ti punge/ quasi
corona di spine.» Ed il Cristo del presepe è simile al Gesù
della forca, “maledetto colui che pende dalla croce”
leggiamo nel Primo Testamento (Deuteronomio 21,23), ma
benedetto colui che nasce in una stalla ed è deposto in una
mangiatoia. In realtà il primigenio giaciglio del Messia
doveva essere l’abbeveratoio, di solito di pietra scavata per
qualche animale -gli stessi che troviamo anche nel presepio- e
quella stessa nuda terra deve averlo accolto alla fine della sua
vita mortale. Certo è che Gesù sconfisse la morte, divenendo il
primogenito dei morti, ovvero il primo dei risorti. Ed il suo
corpo risorto deve aver impressionato Tommaso, tanto da spingere
Michelangelo Merisi –detto “Il Caravaggio”- a trasferirci
nell’incredulità di San Tommaso (dipinta nel 1601) la
carica emotiva di quel discepolo spavaldo ed intrepido che
inizialmente –da spaccone- voleva morire con Lui
(Giovanni 11,16), seguirlo nell’ascesa a Gerusalemme e -se
necessario- sino all’estremo sacrificio. Ma questa fede si fa a
poco a poco torbida, persino nascosta, sino al punto di dubitare
che i suoi amici abbiano potuto “vedere” il Risorto. Costante
nell’uomo è il dubbio che diviene scetticismo, che
porta il credente a interrogarsi. Ed ecco che il Cristo risorto
in mezzo ai suoi appare ora anche a Tommaso e lo costringe a
toccare con mano in quel costato.
Un’altra immagine ci riporta ad un episodio,
antecedente il culmine della esperienza cristica –e cioè la
Risurrezione-, alla morte e alla deposizione dalla Croce al
Sepolcro. Torna il mito della caverna: il Figlio di Dio è
partorito da una Donna -che diviene la Madre di Dio- ed
una caverna nella roccia - una mensola- accoglie un corpo
freddo, morto, calunniato, vilipeso ed oltraggiato che lì viene
deposto e curato, anche se Parasceve. Ma questa salma non
resta lì, ferma ed inerme come il corpo esanime del “Cristo
morto” di Holbein. No! Non possiamo dirci come il protagonista
de “L’idiota” di Dostoevskij –il principe Myskin- che non
vediamo nessuna bellezza ma solamente e crudamente “un
cadavere”! La salma, quel cadavere, è il corpo di un
uomo torturato e crocifisso, del vero Dio e vero Uomo,
dell’Unto del Signore –e quindi del prescelto-, dell’Unigenito.
Con questa convinzione potremmo superare l’impasse
vissuta dal principe Myskin che confida a un amico: «lo sai che,
osservandolo a lungo, si può anche perdere la fede?». E dunque
nel Mistero Pasquale dove potrebbe essere la Bellezza?
Certo è che la bellezza, non è solo esteriore, è soprattutto
ontologica: è la bellezza che è bontà, quel “kalos kai
agathia” che sapientemente esaltavano i greci. Pensando a
questo evento, la morte di Cristo ed alla sua risurrezione, mi
scorrono nella mente diverse immagini che aiutano a comprendere
la difficoltà dell’uomo di realizzare la bellezza, applicandola
ad un evento che, apparentemente, in maniera riduzionistica,
potremmo non dire “semplice” e soprattutto “bello”. Anzi, a dir
proprio la verità, quel simbolo è anche brutto: la croce è
simbolo di morte. Una condanna macabra. Eppure la storia
dell’arte ha saputo celebrare la bellezza della croce.
Certo è che la bellezza dell’arte, da sola, può “non
salvare” o, addirittura, far perdere la fede come Dostoevskij fa
dire al suo principe.
Ma cos’è mai la fede? Sant’Agostino ci diceva:
“Desideravi intellectu videre quod credidi”, mentre nel “Proslogion”
Sant’Anselmo arriva a cantare: «Signore, io non pretendo di
penetrare la tua profondità, perché come potrei paragonare la
mia intelligenza al tuo mistero? Ma desidero in qualche modo
comprendere per credere, ma credo per comprendere».
Pensando alla bellezza della Pasqua,
all’evento che precede il trionfo del mattino dell’Ottavo
giorno mi sovviene la pala di Piero della Francesca, “la
Risurrezione” custodita presso la Pinacoteca di Sansepolcro e l’Ecce
Homo di Antonello da Messina custodito al Collegio Alberoni
dinanzi al quale scrissi: «è
venerdì mattina. Non è
ancora l’ora nona. Dal buio
un volto. Corona
quasi di spine, sparuta, secca, come
il dolore lancinante della colonna. Le
spine son cadute,
flagellate con quel povero Uomo
appeso a subire il supplizio gratuito. La colonna è forse
l’unico elemento pesante, non
risolta, lievemente contrastata. Pallido il soggetto, inebetito,
con appesa al collo una cordicina,
le spalle cadenti ed uno sguardo
fiaccatamene perso che pare dire «ho
faticato invano» (Is 49,4). Il volto
è scavato, più simile ad un’icona
russa, piccole lacrime di sangue
impralinano una pelle sudata,
fustigata e offesa,
quella del Figlio dell’Uomo, del
Messia irriconosciuto. Piccole e
sparute, sparse e disperse,
povere lacrime del Cristo sderenato e
offeso. Innaturale la faccia, pare
tumefatta dalle offese, spalancata. È tutto così silenzioso.
Schiacciante. Le labbra paiono esprimere un urlo afono,
immenso, cosmico. Preso da una
sindrome di Stendhal sosto per circa
mezz’ora in adorazione, preso da
quegli occhi, quasi impercettibili,
mestamente depressi,
dalle evidenti scure forme. L’iride
scompare, pupille sovradimensionate
dalla mancanza di forza di urlare, dilatati
quegli occhi, freddi, quasi di morte,
sconsolati. Eccoti “Uomo dei dolori”,
dalla barba rada, neppure i baffi, distrutto, schiacciato,
dilaniato».
E poi Maria, la Vergine del Sabato Santo
–che mirabilmente Mons. Tonino Bello descrisse in “Maria donna
dei nostri giorni”- «Nelle feste c’è Lui. Nelle vigilie, al
centro, c’è Lei. Discreta come brezza d’aprile che ti porta sul
limitare di casa profumi di verbene, fiorite al di là della
siepe». Un’immagine sintetica mariana è la Madonna addolorata,
in questi giorni contemplo la Madonna “Desolata” di Tutte le
Grazie custodita nella Basilica Patriarcale di Santa Maria
degli Angeli in Assisi. Simile al dono da me ricevuto, un’icona
del Maestro Angelo Vaccarella, iconografo, che raffigura
la Vergine del Phileremo venerata per secoli in Rodi.
Quest’effige mariana era custodita in un santuario, posto a
quasi trecento metri sul livello del mare, fuori dalla città di
Rodi, in una regione desertica –di qui il toponimo “amica della
solitudine/deserto”. Era l’ultimo baluardo mariano per i
pellegrini diretti verso i Loca Sancta prima di imbarcarsi su
barche da piccolo cabotaggio. Era l’ultima Madonna e perciò
quella di “Tutte le Grazie”, Colei a cui affidare la meta quasi
raggiunta, le aspettative del penitente, la fede nel suo Figlio
che spingeva a rischiare la propria vita. Osservandola non mi
resta che dire
«Per mezzo tuo, attraverso il tuo “sì”, la
speranza dei millenni doveva diventare realtà, entrare in questo
mondo e nella sua storia»
come scrive Benedetto XVI nell’Enciclica “Spe Salvi”. Ed auspico
che anche questa Quaresima sia un tempo fervido “nel felice
rischio di incontrare Dio” così come scrisse Karl Rahner.
Prof. ALESSIO VARISCO
Storico dell’arte e saggista
Direttore "Antropologia Arte Sacra"
© 2009 Antropologia Arte Sacra -
ALESSIO VARISCO
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