L’altare della Vergine del Phileremo ed il culto alla Madonna
Profuga nella Basilica Patriarcale di Santa Maria degli Angeli,
Assisi (Perugia)
«A lei perciò ci rivolgiamo:
Santa Maria, tu appartenevi a quelle anime umili e grandi in
Israele che, come Simeone, aspettavano “il conforto d'Israele” (Lc
2,25) e attendevano, come Anna, “la redenzione di
Gerusalemme” (Lc 2,38). Tu vivevi in intimo contatto con
le Sacre Scritture di Israele, che parlavano della speranza –
della promessa fatta ad Abramo ed alla sua discendenza (cfr
Lc 1,55). Così comprendiamo il santo timore che ti assalì,
quando l'angelo del Signore entrò nella tua camera e ti disse
che tu avresti dato alla luce Colui che era la speranza di
Israele e l'attesa del mondo. Per mezzo tuo, attraverso il tuo
“sì”, la speranza dei millenni doveva diventare realtà, entrare
in questo mondo e nella sua storia. Tu ti sei inchinata davanti
alla grandezza di questo compito e hai detto “sì”: “Eccomi, sono
la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc
1,38)».
«Nelle feste c’è Lui.
Nelle vigilie, al centro, c’è
Lei.
Discreta come brezza d’aprile che
ti porta sul limitare di casa profumi di verbene, fiorite al di
là della siepe.
Ci sono, a volte, degli attimi
così densi di mistero, che si ha l’impressione di averli già
sperimentati in altri stagioni della vita. E ci sono degli
attimi così gonfi di presentimenti, che vengono vissuti come
anticipazioni di beatitudini future.
Nel giorno del sabato santo, di
questi attimi, ce n’è più di qualcuno. È come se cadessero
d’improvviso gli argini che comprimono il presente. L’anima,
allora, si dilata negli spazi retrostanti delle memorie. Oppure,
allungandosi avanti, giunge a lambire le sponde dell’eterno
rubandone i segreti, in rapidi acconti di felicità.
Come si spiega, infatti, se non
con questo rimpatrio nel passato, il groppo di allusioni che,
superata appena la “Parasceve”, si dipana al primo augurio di
buona Pasqua, e si stempera in mille rigagnoli di ricordi,
fluenti tra anse di gesti rituali?
La casa, vergine di lavacri, che
profuma d’altri tempi. L’amico giunto dopo tanti anni, nei cui
capelli già grigi ti attardi a scorgere reliquie d’infanzie
comuni. Il dono opulento, là in cucina, tra le cui carte
stagnole cerchi invano sapori di antiche sobrietà.., quando era
viva lei, e la madia nascondeva solo stupori di uova colorate.
Il grembo vuoto della chiesa, il cui silenzio trabocca di
richiami, e dove nel vespro ti decidi finalmente a entrare, come
una volta, per riconciliarti con Dio e sentirti restituire a
innocenze perdute.
E come si spiega, se non col
crollo delle dighe erette dai calendari terreni, quel sentimento
pervasivo di pace che, nel sabato santo, almeno di sfuggita,
irrompe dal futuro e ti interpella con strani interrogativi a
cui senti già di poter dare risposte di gioia? [...]
E gli animali del bosco
ululeranno i loro concerti mentre in chiesa si canta l’Exultet».
Queste ampie citazioni
introducono all’effige della Madonna di Tutte le Grazie -ai suoi
moti interiori, alla fatica del vivere il giorno successivo alla
crocifissione, alla disperazione di una Madre, alla desolazione
dell’elaborazione di un lutto- custodita in terra umbra e
proveniente dall’Isola di Rodi. Grazie a Padre Cesare Andolfi,
francescano dell’Ordine Minore, la copia dell’icona della
Vergine del Phileremo è stata munita di una sontuosa
collocazione. L’effige mariana è dipinta a mezzobusto, in abito
da “post passionem Filii” e cioè riproducente la
Vergine Maria -la Madre di Dio- ritratta dopo la Morte del
Figlio.
«Maria è grande proprio perché
non vuole rendere grande se stessa, ma Dio. Ella è umile: non
vuole essere nient'altro che l'ancella del Signore (cfr Lc
1, 38. 48). Ella sa di contribuire alla salvezza del mondo
non compiendo una sua opera, ma solo mettendosi a piena
disposizione delle iniziative di Dio. È una donna di speranza:
solo perché crede alle promesse di Dio e attende la salvezza di
Israele, l'angelo può venire da lei e chiamarla al servizio
decisivo di queste promesse. Essa è una donna di fede».
L’antifona della Liturgia del
Venerdì Santo sembra riecheggiare nello sguardo, ricolmo della
memoria della vita del Figlio fissata sulla retina dal rimpianto
di una Madre dinanzi la morte ignominiosa per Croce, «o voi
che passate per via, fermatevi e vedete se c’è un dolore simile
al mio».
Un typos stilistico che -secondo
l’iconografia bizantina- presenta la Madonna triste, al
contempo pensosa, ma dallo sguardo dolcissimo ed estremamente
serio che commuove per l’intensità e bontà.
«Maria “serbava tutte queste
cose nel suo cuore” (Lc 2,51). Ella che ben merita la lode
evangelica “Donna davvero grande è la tua fede” (Mt 15,28), sa
coniugare il passato delle meraviglie del Signore col futuro che
Lui solo sa suscitare. Il suo cantico di lode, il Magnificat,
esprime al passato (ha spiegato la potenza del suo braccio…
Lc 1,51ss) le sue certezze per il futuro. La Madonna del Sabato
Santo ci insegna a recuperare la memoria non solo come elemento
di tradizione, bensì anche, e fortemente, come stimolo al
progresso. Dovremmo chiederci alla scuola della sua fede ricca
di speranza: in che maniera valorizzare, aggiornandole al
presente, le grandi tradizioni del passato della chiesa? Penso
al patrimonio di arte delle nostre chiese e mi interrogo su come
potrebbe divenire mezzo di annuncio in un mondo che tanto sente
il bisogno della Bellezza che salva».
È quella che la teologia moderna
definirebbe “la Vergine del Sabato Santo” e cioè Colei
che –dopo la morte di Gesù Cristo- rappresenta lo stupore e
l’attesa soterologica della risurrezione come diceva il Cardinal
Martini «è in questo Sabato Santo che Maria veglia nell’attesa
che risuscita dai morti. Per noi cristiani c’è però un altro
“sabato” che è al centro e al cuore della nostra fede: è il
Sabato Santo, incastonato nel Triduo Pasquale della morte e
risurrezione di Gesù come un tempo denso di sofferenza, di
attesa e di speranza».
La mestizia di una Madre il cui
Figlio è stato tratto dal mondo da un’umanità sclerocardica,
ammorbata di egoismo e cattiveria, così brutale da accogliere la
Luce.
Non è un caso che la Madonna
vesta una tunica ed un copricapo di colore rosso, simbolo
–nell’antichità- del lutto.
«Maria, Madre del Crocifisso, ci
condurrà a ripensare la carità per la quale Egli si è consegnato
alla morte per noi, la carità che è il distintivo del discepolo
e da cui nasce la chiesa dell’amore».
La Verità –che è il “Logos” e
cioè il “Verbo-Messia”, “Salvatore” e “Maestro”- è stata
frenata, troncata: non si è lasciato fluire il Suo Messaggio che
è Speranza e Gioia, lo si è interrotto! Tutto sembra essere
immoto. È il tempo della disperazione. Il dolore sembra
sintetizzarsi sul Volto della Madre, Colei che ha lasciato che
germogliasse dentro di Lei il Frutto della Speranza. Si fissa
anche sullo sguardo quel cumulo di dolore e di disperazione.
«Essa
è una donna di fede: “Beata sei tu che hai creduto”, le dice
Elisabetta (cfr Lc 1, 45). Il Magnificat —un
ritratto, per così dire, della sua anima— è interamente tessuto
di fili della Sacra Scrittura, di fili tratti dalla Parola di
Dio. Così si rivela che lei nella Parola di Dio è veramente a
casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e
pensa con la Parola di Dio; la Parola di Dio diventa parola sua,
e la sua parola nasce dalla Parola di Dio. Così si rivela,
inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di
Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio. Essendo
intimamente penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare
madre della Parola incarnata. Infine, Maria è una donna che ama.
Come potrebbe essere diversamente? In quanto credente che nella
fede pensa con i pensieri di Dio e vuole con la volontà di Dio,
ella non può essere che una donna che ama. Noi lo intuiamo nei
gesti silenziosi, di cui ci riferiscono i racconti evangelici
dell'infanzia. Lo vediamo nella delicatezza, con la quale a Cana
percepisce la necessità in cui versano gli sposi e la presenta a
Gesù. Lo vediamo nell'umiltà con cui accetta di essere
trascurata nel periodo della vita pubblica di Gesù, sapendo che
il Figlio deve fondare una nuova famiglia e che l'ora della
Madre arriverà soltanto nel momento della croce, che sarà la
vera ora di Gesù (cfr Gv 2, 4; 13, 1). Allora, quando i
discepoli saranno fuggiti, lei resterà sotto la croce (cfr Gv
19, 25-27); più tardi, nell'ora di Pentecoste, saranno loro a
stringersi intorno a lei nell'attesa dello Spirito Santo (cfr
At 1, 14)».
Una risposta capace di spiegare
il tumulto di queste domande io ce l’avrei. Se nel sabato santo
il presente sembra oscillare su passato e futuro, è perché
protagonista assoluta, sia pur silenziosa, di questa giornata è
Maria.
«Dopo la sepoltura di Gesù, a
custodire la fede sulla terra non è rimasta che lei. Il vento
del Golgota ha spento tutte le lampade, ma ha lasciato accesa la
sua lucerna. Solo la sua. Per tutta la durata del sabato,
quindi, Maria resta l’unico puntoluce in cui si concentrano gli
incendi del passato e i roghi del futuro. Quel giorno ella va
errando per le strade della terra, con la lucerna tra le mani».
Nella Basilica Patriarcale di
Santa Maria degli Angeli, frazione di Assisi (in provincia di
Perugia), l’icona della Vergine del Phileremo trova dunque una
giusta collocazione.
Quando mi accinsi a visitare per
la prima volta la Cittadina di Assisi ero un ragazzo. Fra i
tanti altari uno colpì il mio sguardo, non capii -durante quella
mia prima visita- solo una cosa: un altare così maestoso, con
una piccola tavoletta dipinta all’interno. Compresi solo che
doveva essere un emblema del culto e della devozione mariana cui
la stessa chiesa è dedicata.
Da studente al magistero
teologico tornai nella basilica che custodisce al suo interno,
nell’incrocio del transetto -sotto al tamburo della cupola- la
famosissima “Porziuncola”. Ora da antropologo rientro e mi
accingo -in ginocchio- ad avvicinarmi con stupore all’icona
venerata grazie alla conoscenza di alcuni frati francescani, del
Sovrano Militare Ordine di Malta, di Suor Maria –greca di Rodi-
e dell’Associazione dei Reduci Rodioti.
Dinanzi l’immagine di quello che
ho rinominato il “Santuario custodente la Vergine di Tutte le
Grazie”, opera del Professor Gismondi, con titubanza e grande
esultanza contemplo la “Madonna dei Profughi”… Mi scorrono negli
occhi scene di “esodi”, tragedie annunciate, sciagure, peripezie
dei nostri giorni. Quante storie di esili forzati, come quella
degli italiani trasferiti nell’isola di Rodi nel Novecento e poi
cacciati nel secondo dopoguerra successivamente alla riconquista
del Dodecaneso per mano greca.
Guardando questo altare ripenso
alle molteplici scene bibliche che -come una sorta di flash
back- affiorano come immagini Sacre Scritture e colpiscono
l’animo imprimendosi nella mia memoria.
«Quando piena di santa gioia
attraversasti in fretta i monti della Giudea per raggiungere la
tua parente Elisabetta, diventasti l'immagine della futura
Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso
i monti della storia. Ma accanto alla gioia che, nel tuo
Magnificat, con le parole e col canto hai diffuso nei
secoli, conoscevi pure le affermazioni oscure dei profeti sulla
sofferenza del servo di Dio in questo mondo. Sulla nascita nella
stalla di Betlemme brillò lo splendore degli angeli che
portavano la buona novella ai pastori, ma al tempo stesso la
povertà di Dio in questo mondo fu fin troppo sperimentabile. Il
vecchio Simeone ti parlò della spada che avrebbe trafitto il tuo
cuore (cfr Lc 2,35), del segno di contraddizione che il
tuo Figlio sarebbe stato in questo mondo».
Ripenso alle parole di un grande
profeta dei nostri giorni, Monsignor Tonino Bello -già Vescovo
di Molfetta- che scrisse della Donna coraggiosa:
«Sarà stato effetto di quel “non
temere” pronunciato dall’angelo dell’annunciazione. Certo è che,
da quel momento, Maria ha affrontato la vita con una incredibile
forza d’animo, ed è divenuta il simbolo delle “madri-coraggio”
di tutti i tempi.
E’ chiaro: ha avuto a che fare
anche lei con la paura.
Paura di non essere capita. Paura
per la cattiveria degli uomini. Paura di non farcela. Paura per
la sorte di Gesù. Paura di rimanere sola... Quante paure!
Se ancora non ci fosse,
bisognerebbe elevare un santuario alla “Madonna della paura”.
Nelle sue navate ci rifugeremmo un po’ tutti. Perché tutti, come
Maria, siamo attraversati da quell’umanissimo sentimento che è
il segno più chiaro del nostro limite.
Paura del domani. Paura che possa
finire all’improvviso un amore coltivato per tanti anni. Paura
per il figlio che non trova lavoro e ha già superato la
trentina. Paura per la sorte della più piccola di casa che si
ritira sempre dopo mezzanotte, anche d’inverno, e non le si può
dire niente perché risponde male. Paura per la salute che
declina. Paura della vecchiaia. Paura della notte. Paura della
morte...
Ebbene, nel santuario eretto alla
“Madonna della paura”, davanti a lei divenuta la “Madonna della
fiducia”, ciascuno di noi ritroverebbe la forza per andare
avanti, riscoprendo i versetti di un salmo che Maria avrà
mormorato chi sa quante volte: “Pur se andassi per valle
oscura, non avrò a temere alcun male, perché sempre mi sei
vicino... lungo tutto il migrare dei giorni”.
Madonna della paura, dunque. Ma
non della rassegnazione».
Certo è che chi sa custodire il
“Mysterion” fu proprio Lei: la Donna del Sabato Santo
quella che «nel venerdì santo, dopo la morte di Gesù, il
discepolo Giovanni “prese con sé” (Gv 19,27), nel suo cuore e
nella sua casa».
Contemplando Maria giungiamo alla vera essenza delle cose: Lei
che accolse nel Suo Grembo il vero Dio ci è Madre e ci dona la
pace, Lei che ha patito tanto dolore.
«Così hai visto il crescente
potere dell'ostilità e del rifiuto che progressivamente andava
affermandosi intorno a Gesù fino all'ora della croce, in cui
dovesti vedere il Salvatore del mondo, l'erede di Davide, il
Figlio di Dio morire come un fallito, esposto allo scherno, tra
i delinquenti. Accogliesti allora la parola: “Donna, ecco il tuo
figlio!” (Gv 19,26). Dalla croce ricevesti una nuova
missione. A partire dalla croce diventasti madre in una maniera
nuova: madre di tutti coloro che vogliono credere nel tuo Figlio
Gesù e seguirlo. La spada del dolore trafisse il tuo cuore. Era
morta la speranza? Il mondo era rimasto definitivamente senza
luce, la vita senza meta? In quell'ora, probabilmente, nel tuo
intimo avrai ascoltato nuovamente la parola dell'angelo, con cui
aveva risposto al tuo timore nel momento dell'annunciazione:
“Non temere, Maria!” (Lc 1,30). Quante volte il Signore,
il tuo Figlio, aveva detto la stessa cosa ai suoi discepoli: Non
temete!»
Sull’altare campeggia la pala di
bronzo argentato –ed in alcuni punti dorata- che è stata ideata
dallo scultore Tommaso Gismondi.
Lo storico dell’arte Velieri scrive che la poetica di Gismondi
“sembra quella di un etrusco risvegliato d’improvviso”. Giuseppe
Lanzi dice che le scene scolpite da Gismondi sono «chiare di per
se stesse, si palesano agli occhi dell’osservatore con una
icastica evidenza sono scolpite con virile vigore ed emergono
con forza dal fondo delle formelle bronzee come tratte a colpi
vigorosi di scalpello dalla roccia aspra dei monti Ernici, che
circondano Anagni, patria e residenza di Gismondi, montagne alle
quali egli spesso paragona l’opera sua... Per Gismondi lavorare
in scultura vuol dire ancora e sempre comunicare ai propri
simili -l’umanità- ciò che nell’intimo gli ispira la vita, la
religiosità dell’esistenza, gli ideali, l’amore per tutti».
Basta uno sguardo attento alla
Pala della Madonna del Fileremo per consentire pienamente con
chi di Gismondi e della sua arte ha scritto quanto sopra abbiamo
riportato. Nella silenziosa cappella, dove una volta si ammirava
la stupenda tavola robbiana, che ora troneggia a ridosso
dell’altare nella cripta della Basilica, ora i devoti venerano
la Icona che peregrinò dalla Russia a Rodi e alla Porziuncola, e
insieme ammirano un capolavoro di arte moderna, che non sfigura
nel succedere sullo stesso luogo dov’era la mirabile opera
d’arte antica.
Anche da quest’opera ci rendiamo
subito conto che Tommaso Gismondi è un artista che si sa imporre
da sé, al di là di ogni presentazione che appare quasi superflua
e banale. L’artista è umbro, nativo di Anagni, ove alcune sue
opere sono state più volte esposte anche in permanenti. Un
figlio dell’Umbria che canta la sua terra. Le sue opere possono
solo catturare lo sguardo. Difatti le sue immagini colpiscono
per la plasticità –non scevra di citazioni altissime- così
simile ai classici della storia dell’arte italiana, seppure mai
retorico ed accademico. Un “segno” che nasce dal gesto abile di
chi sa dominare la materia e determinare uno spazio armonico, in
cui –quasi in un equilibrio alchemico- possiamo leggere
un’alternanza di pieni e vuoti composta con maestria in un
perfetto rapporto armonico. Solo un simile artista avrebbe
potuto aiutare a collocare la piccola ma intensa riproduzione
della “Vergine di Tutte le Grazie”.
L’altare si presenta costituito
da una grande lastra di bronzo divisa in tre campi o zone,
ripartite in dodici riquadri, al centro dei quali è lo spazio
per la Madonna. Risulta, in totale, un quadrato costituito da 13
formelle di cui quella centrale occupata dalla riproduzione
dell’effige mariana. Ciò che colpisce è l’alternanza cromatica
del legno dipinto –posto al centro- rispetto alla superficie
plastica del bronzo argentato e dorato. E non si può che restar
meravigliati –quasi rapiti- dalla vulcanica produzione di opere
pluriformi, in cui la potenza plastica, fatta di un realismo
mai orpelloso, allo stesso tempo fantasiosa e poetica,
cattura subito ed incanta il visitatore. L’opera trasmette
“bellezza e bontà”. Pare che l’artista abbia colto pienamente
nel segno: ha sapiente espresso la “via pulchritudinis”.
L’altare è nell’ispirazione e nella realizzazione in
correlazione e discende legittimamente dalle migliori tradizioni
artistiche italiane.
Occorre –mi sia concessa questa
lunga citazione- riportare le parole di Padre Cesare Andolfi che
così presenta il lavoro ideato dallo scultore «Tommaso
Gismondi ha ereditato la plasticità soda e la vitalità di
Michelangelo, di cui forse si sente un po’ allievo, cfr. “Il
Crocifisso di Cosenza”; e vi unisce il sentimento, il sogno,
l’umanità di Jacopo della Quercia, cfr. “La Deposizione”.
In lui c’è anche qualcosa, e forse più che qualcosa, degli
antichi padri etruschi e latini, cfr. “Gli innamorati
ciociari”. È per questo che quando il sottoscritto vide e
rivide l’annuale esposizione del Prof. Gismondi alle Sorgenti di
Bonifacio in Fiuggi, non poté fare a meno di parlare con lui
esprimendogli un proprio desiderio, un sogno cullato in cuore,
ma che credeva irrealizzabile: far ideare ed eseguire proprio da
questo autentico artista scultore un degno cimelio per
incorniciare la nostra Madonna del Monte Fileremo... Ed ecco: il
sogno si avvera e il desiderio è soddisfatto anche per la
modestia delle richieste economiche dell’Autore. Il capolavoro è
qui, alla ammirazione, alla lode di tutti, specialmente però di
quanti vi vedono degnamente onorata la Madonna, che laggiù,
nell’Isola cristianissima di Rodi, la onorarono, la amarono,
come simbolo della loro fede e della loro speranza, come segno
di bellezza e di un amore che è al di sopra delle cose umane e
verso esse ispira e sospinge».
All’interno dell’altare
illustrato, di forma quadrata, si possono notare due serie
estreme, la superiore e l’inferiore entrambe divise in cinque
riquadri per registro, l’Artista ha proposto una fuga di scene,
che presentano gli episodi più rilevanti e significativi della
vita di Maria: dall’Annunzio dell’Incarnazione fino alla
recentemente acclamata sua Maternità su tutta la Chiesa. I
gruppi sono splendidi, materici e plastici –esprimenti
“pathos”, corporei, e nello stesso tempo soffusi di
misticismo e di grazia.
I due riquadri della zona di
centro, ai lati dell’Icona, sono delle sintesi da grande maestro
e ci vogliono ricordare due episodi della storia mariana e
cristiana della custodia spirituale dell’Isola di Rodi. Sulla
sinistra la formella presenta quando l’eroico Gran Maestro
dell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme
spiega il Vessillo della Fede e chiama i suoi all’ultima
resistenza, mentre i musulmani si fermano -terrorizzati da una
visione celeste- e si danno alla fuga. Questa scena è
l’illustrazione della battaglia avvenuta il 27 luglio 1480
quando Rodi -da lungo tempo assediata- è già caduta nelle mani
dei Mussulmani, i quali però, a un tratto perdono il controllo
dell’Isola. Rodi è libera grazie all’apparizione della
Beatissima Vergine Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa,
come confermano i Mussulmani stessi. Sulla destra possiamo
ammirare l’Assedio dell’anno 1480 durante il quale i cristiani
delle due Chiese riunite nella fedeltà al Concilio di pace e di
unione, tenutosi a Firenze nel 1439 combattono fieramente Latini
e Greci, resistendo al nemico nel nome del popolo cristiano. Il
Turco invita disperatamente i Greci a ribellarsi ai Latini; ma
il Metropolita greco risponde:
«una sola fede ci
affratella nel Nome di Cristo nostro Signore».
La storia del pensiero cristiano
moderno registra nel Novecento il primo tentativo di Unità dei
cristiani. Durante l’anno 1958 avvenne proprio a Rodi il
primo Congresso del Consiglio Universale delle Chiese in cui
viene proposta ed infine acconsentita da parte ortodossa la
prima idea di intesa, che sfocerà poi nel cosiddetto “Ecumenismo”.
Nell’anno 1964 Paolo VI, il Vescovo di Roma e Sommo
Pontefice di Santa Romana Chiesa, vola alla volta di Gerusalemme
per abbracciare il Patriarca Atenagora. Il papa durante
il tragitto verso il suo grande fratello vuol sostare a Rodi
«per lanciarmi all’abbraccio da qui -dice Paolo VI- dove è
rifiorita la pianta dell’Ecumenismo, che ci porterà all’unità e
alla pace per sempre».
Qualche mese più tardi
il Papa invia una sua lettera autografa ai Capi delle principali
Chiese rappresentate, dando un nuovo input ad una nuova
entusiasmante “Idea unionistica”, che porterà il
Patriarca a Roma e il Papa a Costantinopoli.
Nella scena che gremisce il
pannello di destra e con il riquadro che perpetua lo storico
abbraccio di Gerusalemme. Il racconto di questa formella è
plasticamente detto fra i simboli di Rodi
ed in modo davvero superbo: con una sincerità ed un verismo
impressionante, unitamente ad una semplicità e solennità dei
classici.
Al centro campeggia l’immagine
riproducente la Vergine di Tutte le Grazie, meglio noto come
“Madonna del Phileremo”,
campeggia al centro dell’altare a Lei dedicata nella Patriarcale
Basilica di Santa Maria degli Angeli. La riproduzione è una
piccola icona dipinta custodita, come gemma preziosa, in una
sorta di anello, capolavoro progettato dal Prof. Tommaso
Gismondi.
La Vergine del Monte Phileremo è
però un’immagine storica: una “Madonna Profuga”, simbolo
della cristianità cattolica e -nel Mare Egeo- della presenza
nell’isola di Rodi. L’immagine è un multiplo della Vergine
miracolosa custodita in uno dei più antichi templi del bacino
mediterraneo esistente già nel secolo VIII o IX. Nel Santuario
del Phileremo -così chiamato per custodire la “Vergine che ama
il deserto”- in cui era venerata una Icona gerosolimitana sotto
il titolo di “Panaghìa òllon ton chàriton”.
«Nella notte del Golgota, tu
sentisti nuovamente questa parola. Ai suoi discepoli, prima
dell'ora del tradimento, Egli aveva detto: “Abbiate coraggio! Io
ho vinto il mondo" (Gv 16,33). “Non sia turbato il vostro
cuore e non abbia timore” (Gv 14,27). “Non temere,
Maria!” Nell'ora di Nazaret l'angelo ti aveva detto anche: “Il
suo regno non avrà fine” (Lc 1,33). Era forse finito
prima di cominciare? No, presso la croce, in base alla parola
stessa di Gesù, tu eri diventata madre dei credenti. In questa
fede, che anche nel buio del Sabato Santo era certezza della
speranza, sei andata incontro al mattino di Pasqua. La gioia
della risurrezione ha toccato il tuo cuore e ti ha unito in modo
nuovo ai discepoli, destinati a diventare famiglia di Gesù
mediante la fede. Così tu fosti in mezzo alla comunità dei
credenti, che nei giorni dopo l'Ascensione pregavano
unanimemente per il dono dello Spirito Santo (cfr At
1,14) e lo ricevettero nel giorno di Pentecoste. Il “regno” di
Gesù era diverso da come gli uomini avevano potuto immaginarlo.
Questo “regno” iniziava in quell'ora e non avrebbe avuto mai
fine».
Per una serie di vicende
storiche, a volte estremamente tragiche,
l’Immagine stupenda dell’icona venerata presso il Monte del
Phileremo -tappa cruciale dei pellegrinaggi prima di entrare nei
Loca Sancta- passò da Rodi a Viterbo, da Viterbo a Malta,
da Malta a Mosca, da Mosca a Belgrado. Dopo mille peripezie
parve scomparire. Nell’anno 1924 il Governo Italiano di Rodi la
esigé al Governo di Mosca. L’allora ministro della Pubblica
Istruzione, non potendo inviare l’originale antico, scomparso da
Mosca nel 1918, mandò una icona che si diceva copia
dell’originale ed antica venerata immagine mariana.
Ed è così che la Vergine di
Tutte le Grazie, approdò in terra umbra, presso la Città del
Poverello. Precedentemente l’attuale collocazione, la copia
della Beata Vergine era custodita e venerata nella
Cattedrale di Rodi sino all’anno 1925, e fu traslata nel
ricostruito Santuario del Monte Phileremo nel 1931.
Questo multiplo è ora in Italia, nella Basilica Patriarcale
della “Porziuncola” –luogo cardine della spiritualità
francescana, ove San Francesco fondò il primo modello di
comunità rispondente alla Regola francescana-. L’immagine oggi
venerata in un altare della insigne chiesa assisana l’hanno
portata e conservata i già
Missionari dell’Egeo,
ora è esposta alla venerazione e all’affetto dei suoi devoti,
profughi come Lei, nonché ai molti visitatori e pellegrini che
possono ammirare e onorare un’icona simbolo delle disavventure
della vita e dell’odio fra i fratelli. Lei così inerme ci guarda
e, prodiga di ogni grazia, ci ricolma delle benedizioni celesti,
ci aiuta in questo pellegrinaggio terreno. Non banalmente
–questo volto- pare la citazione della preghiera “Salve Regina”
poiché Lei che in
Salve, Regina, Mater misericordiae, vita, dulcedo
et spes nostra, salve.
Ad te clamamus, exules filii Evae.
Ad te suspiramus gementes et flentes in hac
lacrimarum valle.
Eia ergo, advocata nostra, illos tuos
misericordes oculos ad nos converte.
Et Jesum benedictum fructum ventris tui, nobis,
post hoc exilium, ostende.
O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria!
Ora pro nobis, sancta Dei Genitrix.
ut digni efficiamur
promissionibus Christi
Penso in preghiera -contemplando
quello sguardo- alla sua struggente e spasmodica attesa del
vedere il Suo Figlio risorgere. Il sabato diviene il tempo del
grande silenzio. Certamente i primi discepoli vivono questo
giorno
nel pianto, hanno ancora nel cuore le immagini dolorose e
macabre della passione e della morte di Gesù. Con il decesso di
Gesù si legge quasi il termine dei loro sogni messianici. «E
anche il Sabato Santo di Maria, Vergine fedele, arca
dell’Alleanza, madre dell’amore. Ella vive il suo Sabato Santo
nelle lacrime ma insieme nella forza della fede, sostenendo la
fragile speranza dei discepoli».
Occorre riconoscere che anche noi siamo in un
«cammino-pellegrinaggio ecclesiale attraverso lo spazio e il
tempo, ed ancor più attraverso la storia delle anime» e che la
Vergine Madre di Dio «è presente nella nostra storia».
Maria
non si è arresa, non ha lasciato cadere le sue braccia in un
segno di sfaticamento, di sconforto, di arresa. Non ha mai
abbassato lo sguardo, perduta nella rassegnazione. Non ha mai
alzato le braccia in gesto di resa. Soltanto una volta si è
arresa pronunciando il suo fiat e si è piegata al suo
Signore e Dio consegnandosi e divendo arca della Salvezza e
della Nuova Alleanza, Tempio di Misericordia e Consolazione
partorendo, dopo averlo concepito, il Cristo, il Messia ossia
l’Unto, il Figlio di Dio, l’Unigenito del Padre. Una Madonna del
coraggio, che ci invita a cantare con forza il suo canto di
lode:
«Magnificat anima mea Dominum,
et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo
quia respexit humilitatem ancillae suae.
Ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes
generationes
quia fecit mihi magna, qui potens est
et Sanctus nomen eius
et misericordia eius a progenie in progenies timentibus eum.
Fecit potentiam in brachio suo,
dispersit superbos mente cordis sui,
deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles;
esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes.
Suscepit Israel, puerum suum, recordatus misericordiae suae,
sicut locutus est ad patres nostros, Abraham et semini eius in
saecula».
Maria è la donna Deipara, ed è
il sostegno di noi cristiani. Non è un caso che la liturgia –a
partire dal IV secolo- consenta ai catecumeni di fare la loro
professione di fede precedentemente l’ammissione che avveniva
difatti il giorno successivo. Nella Veglia di Pasqua il
candidato al battesimo chiedeva quindi di essere ammesso a far
parte della Chiesa.
Dio è amore (Gv 1,4) come
sottolinea la moderna teologia e questo vuol dire riconoscere
che Dio non è solitudine: non si può amare da soli, per amare
bisogna essere almeno in due in un rapporto così ricco che sia
aperto all’altro. In Dio c’è un rapporto così ricco e profondo:
l’Amante, l’Amato e l’Amore. In ambito ebraico si diceva
“Ani-wa-hou” ossia “io e Lui” intendendo il rapporto d’amore fra
il poppolo di Israele e YHWH. Questa la speranza di Maria, Donna
che danza con coraggio il suo infinito dolore iniziato forse la
di sua presentazione al tempio e terminata sotto quella Croce in
un urlo afono cadendo all’indietro fra le braccia del Giovane
Discepolo, il Condilectus.
Dio-Amore è comunione dei Tre, il
Padre il Figlio lo Spirito Santo, una relazione reale: “essi
sono Tre nel dare e ricevere Amore nell’incontrarsi e
nell’aprirsi all’amore”. E Maria ha accolto per prima la
Santissima Trinità! Myriam ha ascoltato Dio e ha conosciuto,
partorendolo, il Figlio.
«Da allora, ha sempre reagito
con incredibile determinazione, andando controcorrente e
superando inaudite difficoltà che avrebbero stroncato le gambe a
tutti. Dal disagio del parto nella clinica di una stalla,
all’espatrio forzato per sfuggire alla persecuzione di Erode.
Dai giorni amari dell’asilo politico in Egitto, alla presa
d’atto della profezia di Simeone greve di cruenti presagi. Dai
sacrifici di una vita grama nei trent’anni del silenzio,
all’amarezza del giorno in cui si chiuse per sempre la bottega
del “falegname” profumata di vernici e di ricordi. Dalle strette
al cuore che le procuravano certe notizie che circolavano sul
conto di suo figlio, al momento del Calvario quando, sfidando la
violenza dei soldati e lo sghignazzo della plebe, si piantò
coraggiosamente sotto la croce».
Perché la Madonna del Sabato
Santo è Colei che con coraggio ed infinito amore ha sfidato il
dolore. Non si è piegata. Non si è sconfortata. Ha combattuto. E
la Vergine del Phileremo esprime questa forte temperanza,
quest’animosità, questa sete di Amore. Ecco perché dispensatrice
di Grazie!
Quella del Phileremo è una
Vergine che esprime la prova! “Madre della prova” si potrebbe
rappellare. Una prova terribile, la sua. Una sorta di deserto
interiore.
E gli occhi –oramai privi di lacrime- della Vergine di Tutte le
Grazie esprimono l’abbandono a Dio. L’atmosfera è immota,
dominata da uno struggente –apparente- silenzio di Dio.
Una prova senza scenografie e senza sconti sui prezzi della
sofferenza, una prova che non tenta di farne un mito. La
devozione popolare ha reso con strazianti immagini di Vergini
Addolorata, ma qui non vi sono Madonne dalle Sette Spade. Qui
dinanzi la copia della Vergine rodioti vi è una serafica calma
presaga dell’attesa di Gesù Risorto. Le spade erano di venerdì.
Ora Maria dimostra nel Sabato Santo la sua infinita potenza: è
Colei che riluccica di bagliori cristici e ci dà la luce.
«Santa Maria, donna coraggiosa,
tu non ti sei rassegnata a subire l’esistenza. Hai combattuto.
Hai affrontato gli ostacoli a viso aperto. Hai reagito di fronte
alle difficoltà personali e ti sei ribellata dinanzi alle
ingiustizie sociali del tuo tempo.
Non sei stata, cioè, quella donna
tutta casa e chiesa che certe immagini devozionali vorrebbero
farci passare.
Perciò, Santa Maria, donna
coraggiosa, tu che nelle tre ore di agonia sotto la Croce hai
assorbito come una spugna le afflizioni di tutte le madri della
terra, prestaci un po’ della tua Fortezza.
Nel nome di Dio, vendicatore dei
poveri, alimenta i moti di ribellione di chi si vede calpestato
nella sua dignità. Alleggerisci le pene di tutte le vittime dei
soprusi. E conforta il pianto nascosto di tante donne che,
nell’intimità della casa, vengono sistematicamente oppresse
dalla prepotenza del maschio.
Santa Maria, donna coraggiosa,
tu che sul Calvario, pur senza morire hai conquistato la palma
del martirio, rincuoraci con il tuo esempio a non lasciarci
abbattere dalle avversità. Aiutaci a portare il fardello delle
tribolazioni quotidiane, non con l’anima dei disperati, ma con
la serenità di chi sa di essere custodito nel cavo della mano di
Dio. E se ci sfiora la tentazione di farla finita perché non ce
la facciamo più, mettiti accanto a noi. Siediti sui nostri
sconsolati marciapiedi. Ripetici parole di speranza. E allora,
confortati dal tuo respiro, ti invocheremo con la preghiera più
antica che sia stata scritta in tuo onore: “sotto la Tua
protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio; non
disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e
liberaci da ogni pericolo, oh Vergine gloriosa e benedetta. Così
sia”».
Queste parole così alte e
confortanti del compianto vescovo di Molfetta, Mons. Tonino
Bello, ci aiutano a comprendere meglio questa magnifica Madonna,
insieme a quelle di Papa Benedetto XVI
«così tu rimani in mezzo ai
discepoli come la loro Madre, come Madre della speranza. Santa
Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare
ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del
mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!»
A Rodi o nelle Isole dell’Egeo
iniziarono a venerarla sotto quel titolo, che genera tanta
fiducia, a pregarla come generosa sorgente di ogni bene,
e a ringraziarla per la pluriforme esperienza della Mediazione
di Lei, Maria, Madre di Dio e di tutti gli uomini.
Grazie Vergine del Phileremo,
grazie “vera Zoodochò pighi”!
Prof. ALESSIO VARISCO
Storico dell’arte e saggista
Direttore "Antropologia Arte Sacra"
Tommaso Gismondi ha fatto molte sue opere ornano e
completano monumenti e chiese, palazzi civici e sedi
culturali ormai multiple in Italia, in Francia e nelle
Americhe. L’artista è stato elogiato dalla stampa, persino
in quotidiani come l’Osservatore Romano, e riviste di
vario genere culturale e di settore; di lui si sono
interessati molti volte critici qualificati che hanno
espresso i giudizi incoraggianti, assimilandolo ai
migliori rappresentanti dell’arte plastica italiana. Padre
Cesare Andolfi, Ofm, così lo descrive: «ci sono creazioni
sue, come per es. la Cena al naturale nel giardino di
Santa Sabina a Roma, dalle figure così vive e potenti,
così fantastiche e suggestive; come le Porte di
Cattedrali: Sora, Lanciano, Paola, ecc. Pale d’Altare,
come quella di Cosenza, che, viste una volta, ti fanno
pensare per giorni e giorni, e non ti si staccano dalla
mente».
© ALESSIO VARISCO, Técne Art Studio
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