INDIZI DI UNA PRESENZA GIOVANNITA NELL’ALTA VALLE DELL’AMASENO.
LA CHIESA DIRUTA DI SAN GIOVANNI IN SILVAMATRICE
di
Giancarlo Pavat
Da tempo era
nota l’esistenza nell’Alta Valle del fiume Amaseno, attualmente
al confine tra la provincia di Frosinone e quella di Latina, di
proprietà dell’ “Ordine Ospitaliero di San Giovanni di
Gerusalemme” o “Cavalieri Giovanniti”. Successivamente
“Cavalieri di Rodi” e poi “di Malta”. Sorto in Terrasanta, ad
opera di mercanti Amalfitani, verso la fine del XI secolo.
Un “cabreo”
(la parola deriva da capibrevum ovvero caput
breve; elenco, sommario, inventario) del 1333, conservato in
Vaticano (Biblioteca Apostolica Vat., Cod. Vat. Lat. 10372,
manoscritto pergamenaceo di pp. 110 tra recto e verso, cm 17 x
23,5) elenca i beni che i Cavalieri Giovanniti della Commenda di
San Jacopo o San Giacomo di Ferentino (FR) possedevano “in
castro Sancti Laurenti de Valle quod tenet Franciscus de
Ceccano..”. (1)
Il Castrum
Sancti Laurenti è l’odierna cittadina di Amaseno, che
all’indomani della “Breccia di Porta Pia” ha assunto il nome del
fiume di virgiliana memoria. Ma i possedimenti, che non
compaiono più nei “cabrei” successivi, non vengono
specificati in maniera dettagliata, come se l’estensore
dell’inventario, non soltanto non sapesse quali fossero, ma non
conoscesse nemmeno la zona in cui erano dislocati. Quindi, con
la dicitura Sancti Laurenti avrebbe semplicemente
indicato, tramite la sua la località più importante, l’intera
vallata.
Ipotesi
condivisa da numerosi studiosi e ricercatori, soprattutto
locali, che nel tentativo di identificare questi possedimenti
hanno tirato in ballo la toponomastica. Una località campestre
tra Amaseno e Villa Santo Stefano (altro comune della vallata,
arroccato su una rupe tufacea e fondato attorno al XI secolo,
probabilmente da Monaci Benedettini provenienti da Fossanova) si
chiama “Costa San Giovanni”. Ricordo di un luogo di culto
dedicato a San Giovanni Battista (o all'Evangelista) oppure
della presenza di un bene degli Ospitalieri? Al lato destro
della Collegiata di Santa Maria, ricostruita nel XII secolo dopo
la distruzione nel 1165 per mano delle truppe del “Barbarossa”
(2), esisteva un oratorio intitolato a San Giovanni, rimosso nel
1921. Sempre ad Amaseno, si ha anche notizia di una chiesa di
San Giovanni, in rovina già nel XV secolo, e della “Porta di San
Giovanni”, oggi scomparsa.
Inoltre, vista
la data del documento vaticano, 1333, potrebbero trattarsi,
addirittura, di beni già appartenuti ai Templari e
successivamente ceduti agli Ospitalieri, come deciso dal
Pontefice dopo la cruenta soppressione del Tempio. Che secondo
alcuni indizi emersi negli ultimi anni sembrerebbe anch’esso
attestato nella valle (3).
E proprio le
ricerche volte a trovare tracce dei Templari hanno, invece,
gettato nuova luce sulla presenza Giovannita. Arrivando ad
identificarne, con una elevata percentuale di certezza, uno di
questi siti.
Si tratta di un
luogo di per se interessante ed affascinante. Quasi magico. In
cui tradizioni che affondano le radici in antichissimi culti di
popolazioni italiche, sono sopravvissute sino a qualche decina
di anni fa. Si tratta della chiesa diruta di San Giovanni in
Silvamatrice, nella campagna di Villa S Stefano.
Già il nome è un
piccolo enigma. Il termine “Silvamatrice” lo si è voluto sempre
far risalire all’ambiente circostante. Una chiesa “matrice”,
madre; immersa in una selva, in un bosco (4). Asserzione
certamente logica, ma confutata dal Tranelli grazie ad un
documento, piuttosto tardo, un atto notarile del 1539 (5), da
lui rinvenuto, in cui la chiesa viene indicata come “S.ti
Joannis de matrice”. Emerge evidente il riferimento ad una
caratteristica topografica. Non quindi “chiesa madre”, ma chiesa
che sorge sopra o presso una “matrice”. Il Tranelli, volendo
attribuirne un significato, “per così dire (prendendo a
prestito un’espressione dal linguaggio medico moderno) basato
sulle evidenze”, osserva, giustamente, come esso indichi
pure, e nel nostro caso si adatta benissimo, “una parte
profonda e nascosta della terra” (6). Infatti, sotto la
chiesa scorre un tumultuoso fiume carsico che, scendendo dal
Monte Siserno, sbocca presso la “Fontana di San Giovanni”, a
qualche decina di metri di distanza dai ruderi. I grandi vasconi
in pietra sono ormai da decenni semplici abbeveratoi per il
bestiame ma, in passato vennero utilizzati “per la
lustrazione di uomini ed animali” (7).
Quindi un sito
acquifero. Ma che per le antiche genti italiche che abitarono
l’area, era anche un luogo sacro, ove si potevano manifestare
divinità ctonie. Di cui sentivano la “voce”. Il sordo rimbombo
delle acque sotterranee, che risaliva in superficie attraverso
un pozzo, forse naturale, che si apriva nel pavimento della
cripta (oggi crollata) della chiesa e perfettamente udibile sino
agli anni ’50 del XX secolo. Tanto che ancora oggi, gli anziani
del paese ricordano perfettamente quando le nonne li portavano a
“sentire il suono della Matrice”.
Su questo sito
sorse un sacello sacro, come testimonierebbero i grandi blocchi
in pietra visibile sul fianco sinistro della chiesa e numerosi
reperti d’epoca romana (8) portati alla luce dall’aratro del
contadino e dal piccone del tombarolo. Piaga purtroppo endemica
per San Giovanni in Silvamatrice. L’ultimo saccheggio, in ordine
di tempo, risale alla primavera del 2008.
Esiste ancora
oggi una fotografia in bianco e nero, scattata negli anni ’70,
in cui si vede una “grande pietra sacrificale con una
scanalatura longitudinale per lo scorrimento del sangue degli
animali sacrificati alle divinità. Tale pietra fu dai
costruttori della chiesa inserita nelle mura ed oggi è caduta a
causa del crollo di alcuni muri interni” (9). La pietra è
anch’essa scomparsa. Da ricordare anche le due mezze colonnine
in marmo bianco, forse ciò che rimaneva di un altare, trafugate
nel 2008.
Con l’arrivo del
Cristianesimo nella vallata, non prima del V secolo d.C., sul
tempio, venne eretta una chiesa paleocristiana. Forse la più
antica di tutta la zona. Alla quale appartenevano probabilmente
due archetti con decorazioni a spirale, che si trovavano murati
sul lato destro della chiesa, anch’essi depredati.
Le grandi vasche
in pietra della “Fontana di San Giovanni” vennero riconsacrate “come
fonte battesimale per i catecumeni anche con il rito
dell’immersione ancora in uso nella Chiesa latina in quei tempi.
Che come luogo di battesimi il santuario venisse intitolato a
San Giovanni Battista sembra perfettamente logico” (10).
Le scorrerie dei
saraceni del IX secolo d.C., decretarono la fine della chiesa di
San Giovanni e del piccolo centro abitato che sorgeva nei suoi
pressi.
Verso al fine
del XII secolo, seguendo i crinali dei Monti Ausoni, lontano
dalle rive mefitiche del fiume e dalle paludi, scesero nell’Alta
Valle per ricolonizzarla, i Monaci Benedettini di Fossanova.
Costruirono dei mulini ed è a loro che, come si accennava
all’inizio, si deve la nascita di Villa Santo Stefano. Che,
guarda caso porta lo stesso nome del Santo a cui è dedicata
l’abbazia pontina. Quanto a San Giovanni in Silvamatrice, tra la
fine del XII e gli inizi del XIII secolo, venne eretta ad opera
degli stessi monaci vestiti di nero, una nuova chiesa in stile
romanico. Di cui vediamo ancora oggi le venerande vestigia.
A navata unica e
priva di abside, si presentava con il presbiterio rialzato da
alcuni gradini e l’altare posizionato a ridosso della parete di
fondo. Sulla quale si apriva forse una piccola porta. Gli altri
ingressi erano due. Uno laterale sulla parete di destra ed il
cosiddetto Portale Maggiore. Composto “da stipiti diritti
poggianti su basi attiche e da un grande architrave
monolitico (attualmente risulta spezzato a causa di una granata
avuta durante l’ultimo conflitto bellico) sorretto da due
mensole decorate con motivo cilindriforme” (11). Sopra
l’ingresso, una trabeazione scanalata regge una lunetta in stile
romanico certamente un tempo affrescata. L'architrave si
presenta effettivamente ancora oggi spezzato. Ma non per la
causa adotta dal Cristofanilli. “Contrariamente a quanto si
legge nel testo” scrive Arthur Iorio, alludendo alla
monografia del G.A.V., del 1975 “l’architrave del portale
grande non venne colpito da una granata durante la guerra, ma è
crollato in seguito, come è visibile da foto nel 1950”
(12).
San Giovanni in
Silvamatrice possedeva un notevole corpus di simboli non
sappiamo se attribuibili ai Benedettini di Fossanova oppure a
coloro che ne presero il posto. Tra gli elementi crollati della
parete di fondo, chi scrive rinvenne un blocco di tufo, quasi
cubico, di circa 50X50X40 cm, con sopra inciso un consunto
simbolo della “Triplice Cinta”, meglio noto come schema del
gioco del “Filetto”. Si ritiene che fosse murato verticalmente
all’interno della chiesa (13). Sparsi per il borgo medievale di
Villa S Stefano, si possono vedere numerosi altri esempi di
questo simbolo. Forse quello di San Giovanni in Silvamatrice era
il modello originario, l’archetipo (14). Anche di questo,
purtroppo, ci rimangono ormai soltanto alcune fotografie, visto
che ha fatto la stessa fine degli altri reperti scomparsi nella
primavera del 2008.
Sulla facciata
della chiesa, alla destra
del portale principale, sotto le ormai labili tracce della
sinopia del volto del Santo, forse il Protomartire, si scorge un
blocco tufaceo. Posizionato quasi al livello attuale del terreno
e privo di intonaco. Sopra si nota un Triangolo Equilatero,
scolpito con la base parallela al suolo. Ricorda la quarta
lettera dell’alfabeto greco, avente la medesima
forma; la Delta. Segno di
riconoscimento di qualche corporazione di scalpellini oppure
arcana simbologia?
L’attenta analisi della parete
anteriore mi ha permesso, nel 2006, di individuare quelle che
sembrano le testimonianze di interessanti della presenza
dell’Ordine Giovannita a Silvamatrice. Si tratta di due “Croci
amalfitane” profondamente scolpite nei blocchi di
pietra. Di cui non aveva mai parlato nessuno prima, proprio
perchè coperte dall’intonaco
affrescato tra la fine del XIV
e gli inizi del XV secolo, staccatosi brano a brano negli ultimi
anni. Eppure già da tempo erano note altre croci
simili. Negli anni ’70 sugli stipiti del Portale Maggiore ne
vennero individuate due, di 6X6 cm, ma erroneamente definite
come croci “di consacrazione a forma greca” (15).
Evidentemente non era stata notata la forma peculiare, con i
bracci “a coda di rondine”. Come invece si può osservare
tranquillamente ancora oggi.
Ma non è finita.
Un’altra croce “a coda di rondine” faceva bella mostra di se,
scolpita sul lato interno dell’architrave della porta laterale
destra della chiesa. La si nota in una fotografia in bianco e
nero scattata da Arthur Iorio negli anni ’50. La foto è
importante anche per un altro motivo; è l’unica immagine
esistente della cosiddetta “Lapide Boccanappi” del 1439 (16).
Reperto davvero importante e singolare, fondamentalmente dal
punto di vista epigrafico ma, sventuratamente, anch’esso
scomparso nella palude del traffico e mercato clandestino delle
opere d’arte ed archeologiche.
Un’altro
indizio”Giovannita” potrebbe essere un affresco anch’esso perso
per sempre e di cui ci rimane memoria soltanto grazie ad
un’altra fotografia in bianco e nero degli anni ’50 di A. Iorio.
Vi si vedono tre personaggi in atteggiamento devozionale,
rivolti ad una Immagine Sacra, non più visibile già all'epoca
dello scatto. Uno dei personaggi, il primo a destra nella foto,
porta una barba fluente e il “bordone”, il bastone da
pellegrino, con legata in cima una sacca, chiamata "scarsella",
con, ben visibile, una conchiglia di San Jacopo, il pecten
o conchiglia di Venere. Il dipinto ritrae quindi dei pellegrini.
E sembra fare riferimento ad un pellegrinaggio a Santiago di
Compostella, o comunque una devozione per Giacomo Maggiore.
Nell’Alta Valle non è attestato un culto per il Santo galiziano.
Se ne hanno tracce soltanto a Priverno, dove nella chiesa di San
Benedetto è visibile un San Giacomo, affrescato accanto al
fratello Giovanni, ascrivibile al XIV secolo, e a Maenza (sui
Monti Lepini, oggi in provincia di Latina) dove si trova la
chiesa sconsacrata dedicata proprio a San Giacomo.
Quindi, per il
dipinto con i pellegrini di San Giovanni in Silvamatrice,
l’unico rimando, ma si tratta sempre di ipotesi, potrebbe essere
proprio alla Commenda ferentinate, dedicata all’Apostolo, alla
quale apparteneva il “cabreo” conservato in Vaticano.
Inoltre, anche
elementi oggetti, come la pozione stessa di Silvamatrice,
concorrono nel ritenere più che probabile un insediamento
Giovannita.
Se prendiamo una
cartina della zona, vediamo che l’area nota come Valcatora, che
già dal nome sembra indicare un punto di attraversamento, e
distante poche centinaia di metri da Silvamatrice, era percorsa
da una antica strada romana, di cui si vedono ancora qua e là i
basoli. La “Via Marittima”, che univa la via Latina, da
Frosinone, attraverso Ceccano e Giuliano di Roma con la città di
Privernum e l’Appia. Percorso utilizzato anche nel Medio
Evo e che conduceva a Terracina, porto dove ci si imbarcava
anche per la Terrasanta e dove erano insediati i Templari (17).
Lungo questo percorso sorgevano numerosi ospitali o
mansiones per dare ricovero a pellegrini e viandanti. A
Giuliano di Roma l’Ordine degli Antoniani aveva una chiesa ed un
lebbrosario dedicati a San Nicola di Myra.
Ma in quale
lasso temporale i Giovanniti si sarebbero potuti incontrare a
San Giovanni in Silvamatrice? Il periodo più probabile va dalla
metà del XIII secolo a poco dopo la stesura del “cabreo”
del 1333. Un periodo di cui non esistono testimonianze e fonti
coeve.
Il nome della
nostra chiesa compare per la prima volta in un documento del
1362, quindi ventinove anni dopo il “cabreo”. Si tratta
del Testamento, rogato il 24 aprile, da Giacomo I° dei Conti di
Ceccano (1299-1363), signore di Maenza. San Giovanni in
Silvamatrice viene citata laddove stabilisce di lasciare “la
quarta parte del castello di S. Stefano alla Chiesa”, a
patto che questa provveda a pagare i restauri che lui stesso
aveva commissionato “per le chiese di S. Maria della Stella
(lavori per 25 fiorini) e di S. Giovanni in Silvamatrice (lavori
per 50 fiorini)”.
I Conti di
Ceccano (antica schiatta il cui capostipite fu quel Petronio
Ceccano o Petronius Ceccanus, padre del Pontefice Onorio
I (625-638), che diede il proprio nome alla romana Fabrateria
Vetus attuale Ceccano), seppur tra alterne vicende, furono,
tra il XII ed il XIV secolo, feudatari di Villa Santo Stefano e
dell’intera vallata dell’Amaseno. Relativamente a Silvamatrice,
potrebbero essere subentrati ai Giovanniti, a seguito
dell’abbandono o, più probabilmente, della cessione della chiesa
e di altri beni. Sono esistiti stretti rapporti e legami tra la
Famiglia Comitale e l'Ordine Ospitaliero. Almeno due membri
della schiatta dei de Ceccano ne fecero parte, ricoprendo
importanti cariche. Ad esempio Stefano, figlio di Gottifredo e
Donna Giovanna de Ceccano. Che sul finire del XIV
secolo fu Priore dei Cavalieri Ospitalieri di Roma. Si ricorda
anche un Giovanni de Ceccano, imparentato con Stefano,
che, proprio in quegli anni, fu responsabile della Commenda
“Giovannita” di Fano nelle Marche.
L’ipotesi
Giovannita in relazione a San Giovanni in Silvamatrice trova
fondamento, quindi, essenzialmente su indizi, ma indizi
oggettivi, elementi tangibili. E non astruse elucubrazioni
mentali.
Abbiamo cinque
“croci amalfitane”. Cinque e tutte in un luogo soltanto.
Circostanza quantomeno curiosa, se si pensa che non ne sono
state rintracciate di simili in tutta la vallata. E tutte
ascrivibili al medesimo periodo, prima del XIV secolo, che
coinciderebbe proprio con l’insediamento Giovannita.
Inoltre, non è
da escludere che altre croci o simboli riconducibili all’Ordine
Ospitaliero, potrebbero ancora trovarsi sotto l’intonaco
superstite e ricoperto da edera ed altri rampicanti, oppure
sotto le macerie che hanno innalzato, in alcuni punti anche di
un metro, il piano di calpestio dell’interno dell’edificio
sacro.
Altro indizio di
notevole spessore è l’intitolazione stessa della chiesa al
Battista, patrono dei Giovanniti.
Infine non vanno
tralasciati gli accertati vincoli e rapporti tra l’Ordine ed i
feudatari locali, poi titolari (a partire dalla fine del XIV
secolo) dello juspatronatus sulla chiesa.
Se ragionassimo
come la scrittrice Agatha Christie, secondo la quale tre
coincidenze formano un indizio e tre indizi sono una prova,
allora l’appartenenza di San Giovanni in Silvamatrice ai
Giovanniti sarebbe inconfutabile. Ma noi preferiamo muoverci con
i piedi di piombo. Diciamo che tutto quanto esposto, concorre
nell’identificare la chiesa diruta santostefanese come uno dei
beni che l’Ordine con la “Croce Ottagona” vantava nella valle
Sancti Laurenti.
La conferma
definitiva, le prove indiscutibili, potrebbero arrivare o dalla
scoperta di qualche nuovo documento dell’epoca oppure da
ritrovamenti archeologici. Al momento nessun Ente preposto ha
mai svolto indagini o saggi di scavo in loco. L’Amministrazione
Comunale santostefanese, però, ha attivato la procedura per
poter acquisire l’area con le rovine della chiesa, teoricamente
ancora di proprietà privata sebbene abbandonata da quasi un
secolo. Questo con l’intenzione e la speranza di salvare dal
definitivo oblio ciò che rimane di un monumento, davvero unico
nel Basso Lazio, per i suoi aspetti storici, artistici e
antropologici.
NOTE:
(1) Il “cabreo” recita
testualmente: “Status domus Sancti Iacobi de Ferentino
assignatus per fratrem Thomassium priorem domus Urbis ex parte
fratris Petri de Ozeto prioris dicte domus et in primis
assegnati.
Quoddam stabulum
cuiusdam ecclesiae Sancti Johamnnis de Verulis per florenos X;
Item pro quodam Ospitali
castri Babuci per florenos XXX; Item unum posse in castro Sancti
Laurenti de Valle quod tenet Franciscus de Ceccano”.
In pratica sono riportati, per volere del Priore Giovannitia
Tommaso di Roma, i beni dell’Ordine, oltre che nel Castrum
Sancti Laurenti, anche a Veroli, con la Chiesa di San
Giovanni, fuori Porta Romana, in località chiamata “Arnara” e
nell’odierna Boville Ernica; Bauco dove c’era un “Ospitale”.
(2)“1165
Indictione decima termia Christianus cancellarius et Comes
Getheolinus ceperunt Maritimam et Campaniam praeter Anagniam,
quam devastaverunt, et incenderunt Cisternam, et Castrum, et
fecerunt jurare totam terram ad fidelitatem Paschalis, et
Imperatoris, et sic redierunt in Tusciam.
[….]. Et sic
intraverunt in vallem Sancti Laurentii, et incenderunt Castrum
Sancti Stephani, et Pressei, et unusquisque postea rediit ad
propria. Hoc autem anno Ripe, Turrice, et Castrum Sancti
Laurentii, et Insula cremata sunt, et Alexander papa reversus
est Romam“
da “La Cronaca di
Fossanova” o Chronicon Fossanovae o Annales
Ceccanenses. Del manoscritto originale della Cronaca,
conservato presso l’Abbazia Cistercense pontina, da cui ha preso
il nome, non si sa più nulla da secoli, ma è probabile che sia
esistito almeno sino al XVII secolo. Al 1644, risale infatti la
prima edizione a stampa del manoscritto, edita da Ferdinando
Ugelli. Il “Chronicon” è stato attribuito, a seconda
degli studiosi, o a Giovanni Conte da Ceccano (vissuto nel XIII
secolo) o ad un tale prete Benedetto, scrivano dello stesso
conte. E’ redatto in “Mediolatino”, “il lessico non è di
difficile comprensione, ma spesso la grammatica e la sintassi
sono usati in modo erroneo e questo fa pensare che lo scrittore
o gli scrittori, non avessero molta dimestichezza con l’arte
della scrittura” (da “I Conti di Ceccano nei secoli XII e
XIII” di Edoardo Papetti – Luglio 2003). Il “Chronicon”
inizia dalla nascita di Gesù per giungere sino al 1217. Ma
soltanto per gli anni successivi al Mille, riporta notizie ed
avvenimenti relativi all’Abbazia pontina e al territorio
circostante, tra cui la Valle dell’Amaseno.
(3) G. Pavat, 2007. “Valcento.
Gli Ordini monastico cavallereschi nel Lazio meridionale”.
Edizioni Belvedere, Latina.
(4) Per questa spiegazione
etimologica si veda, ad esempio Arthur Iorio in “Villa S.
Stefano, storia di un paese del Basso Lazio attraverso i secoli”
- Casamari 1983, oppure Carlo Cristofanilli nella monografia del
Gruppo Archeologico Volsco (G.A.V.) “La chiesa di S Giovanni in
Silvamatrice” – Ceccano 1975.
(5) Il documento ci consente di
apprendere che a far data
del 4 settembre 1539, a ricoprire la carica di “abate” di San
Giovanni troviamo tale Domenico Arcangeli, arciprete di Arnara.
Dallo stesso documento si evince che questi affittò il
“beneficio” ai sacerdoti santostefanesi Giovanni Antonio e
Antonio Tambucci, per quattro anni, a dieci ducati l’anno da
pagarsi nel giorno della festa del Santo (A.S.F., Fondo Notarile
di Ceccano, B. 15 prot. 48 f. 24). Un altro documento, di
qualche anno dopo, ci rende conto della presa in “…corporale,
reale, attuale possesso della…detta chiesa con i suoi diritti e
pertinenze universe…” da parte del sacerdote giulianese
Matteo De Matteis, avvenuta il 5 marzo 1542, descrivendo
compiutamente le formalità della cerimonia (A.S.F., Fondo
Notarile di Ceccano, B. 15 prot. 48 f. 24). Il religioso, l’11
febbraio dello stesso anno, aveva ricevuto la bolla di
investitura dal Vescovo di Ferentino, su presentazione di
Ascanio Colonna (“Silvio Galassi vescovo di Ferentino
(1585-1591) e la sua epoca” a cura di B.M Valeri - Casamari
1994).
(6) V. Tranelli e G. Pavat. “La
vera storia di S Giovanni in Silvamatrice”, da “Le Foglie” n. 76
luglio 2008 dei L.E.A.,
Laboratori di Educazione Ambientale, Italia Nostra Onlus – Isola
del Liri.
(7) A. Iorio, 1983. "Villa S.
Stefano, storia di un paese del Basso Lazio attraverso i
secoli”. Casamari.
(8) “... numerosi resti
di ceramica, di pietre lavorate, di basoli e di resti di tombe”
da C. Cristofanilli, 1975. “La Chiesa di San Giovanni in
Silvamatrice”. Monografia del Gruppo Archeologico Volsco (G.A.V.),
Ceccano.
(9) Ibidem.
(10) A. Iorio, 1983. "Villa S.
Stefano, storia di un paese del Basso Lazio attraverso i
secoli”. Casamari.
(11) C. Cristofanilli, 1975. “La
Chiesa di San Giovanni in Silvamatrice”. Monografia del Gruppo
Archeologico Volsco (G.A.V.), Ceccano.
(12)
A. Iorio, 1983. "Villa S.
Stefano, storia di un paese del Basso Lazio attraverso i
secoli”. Casamari.
(13) Allo sbocco della vallata
dell’Amaseno sorge Priverno, la medievale Piperno. Dove ancora
oggi si trova la chiesa di Sant’Antonio Abate (XIII),
appartenuta all’Ordine monastico ospitaliero degli Antoniani. La
chiesa si presenta con una ricchissimo apparato iconografico
(affreschi, bassorilievi) e simbolico (Croci del Tau, “Fiori
della Vita”). Sul pavimento della navata si nota una “Triplice
Cinta” con al centro una Croce. Un vero e proprio “unicum”
per due motivi. Per quanto se ne sa, si tratta dell’unico
esempio di questo simbolo con incisa una croce e posto
all'interno e non all'esterno di una chiesa.
(14) G. Pavat “Le Triplici Cinte
o gioco del filetto a Villa S Stefano”, da “Lazio ieri e oggi”
n. 9 (526) anno XLIV settembre 2008, Roma.
(15) C. Cristofanilli, 1975. “La
Chiesa di San Giovanni in Silvamatrice”. Monografia del Gruppo
Archeologico Volsco (G.A.V.), Ceccano.
(16)
La “Lapide Boccanappi”, che
secondo A. Iorio “era ancora sull’architrave nel 1960”
è una epigrafe con testo in latino, a caratteri medioevali, che
attesta la costruzione e donazione, nel 1439, della cappella, in
stile gotico, annessa alla chiesa, da parte di un certo
Boccanappi e della moglie Iacobella. “CAPPELAM ISTAM
FIERI FECIT PETRUS BOCCANAPPI CUUM IACOBELLA USSORI SUA PRO DEO
ET AD HONOREM BEATI IOANNI BATTISTE AC ANIMARUM EORUM ET
MORTUORUM EPORUM. QUI REQUIESCANT IN PACE AMEN. SUB ANNO DOMINI
MCCCCXXXVIIII S/ECUND/A INDICTIONE NIC/O/LAUS AND/R/E ET NIC/O/LAUS
DO/N/A/T/I FE/CE/RUNT O/PERA/. CHRISTE BENEDICATUR AMEN” ("Questa
cappella venne fatta costruire da Pietro Boccanappi unitamente
alla moglie Iacobella dedicata alla gloria di Dio ed in onore
del beato Giovanni Battista per la salute delle anime loro e di
quelle dei parenti morti, che riposino in pace. Amen. Nell’Anno
del Signore 1439, indizione seconda. Nicola di Andrea e Nicola
di Donato fecero l’opera. Che sia benedetto Cristo. Amen”).
Successivamente, venne deciso di integrare la Cappella nella
struttura sacra del XII secolo; provvedendola di una navata di
accesso, aperta attraverso archi a sesto rialzato venne aperto
il cosiddetto Portale Minore. La chiesa raggiunse quindi
l’aspetto definitivo. Quello che, sebbene diruta si può
attualmente ancora ammirare.
(17) Un documento relativo alla
Famiglia dei Conti di Ceccano conferma la presenza dell’Ordine
del Tempio a Terracina. Si
tratta del testamento
della Contessa Margherita di
Ceccano, che ancora a metà del XIV secolo, quando il Tempio era
ormai da anni soppresso, cita l’esistenza di alcuni beni.
“Così delle case del Tempio
site in Terracina […] La testatrice lascia alle sorelle
Catuzia e Giovannella, sue figlie, ogni diritto di rendita sulle
acque, l’altura e il canale che la rasenta, il diritto di
frantoio, i pedaggi delle case del Tempio e tutti gli altri
profitti, redditi, evenienze e pertinenze di Terracina spettanti
alla testatrice per qualsiasi diritto, titolo o causa”. (dal
“Testamento di Margherita da Ceccano, Contessa di Vico, 17
giugno 1384”. Traduzione dal latino medievale di Umberto
Germani, 2002, a cura dell’Associazione Culturale Fabraterni,
dai testi in lingua originale riportati da Michelangelo Sindici
nel volume “Ceccano, l’antica Fabrateria”).
(18) Che la chiesa prenda il nome
dal “Precursore” e non dall’Evangelista (a cui non c’è nemmeno
un piccolo riferimento nella storia, seppur lacunosa, del
monumento), appare certo, oltre che dalle vasche battesimali,
dal testo della “Lapide Boccanappi” e da documenti di Età
Moderna, anche da una tradizione locale, sopravvissuta sino alla
metà del XX secolo. Quando nel giorno di San Giovanni Battista,
24 giugno, si teneva a Silvamatrice, il rito del “Comparatico di
San Giovanni”. Le nonne univano in un vincolo affettivo
sacro-profano, tramite una sorta di giuramento, bambini e
bambine, accompagnati alla Fontana di San Giovanni con le
coroncine di vitalba in testa. La formula, mediante la quale i
“compari” e le “comari” di San Giovanni dovevano rispettarsi ed
aiutarsi per tutta la vita è ancora ricordata dagli anziani
santostefanesi; “Cummar San Giuann battezzam st pann, i pann
s batt zzat, gnora cummar c sem ghiamat”. Poi si segnavano
vicendevolmente sulla fronte con il segno della croce per mezzo
di un garofano bagnato nell’acqua santa raccolta nel catino
dell’acquasantiera in pietra o dei vasconi litici.
Si
ringrazia per la gentile concessione l'Autore
©2009
Testi ed immagini sono di GIANCARLO PAVAT
N.B.: Chiunque intenda utilizzare in toto o
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per esteso l'Autore, il titolo dell'opera, la Casa Editrice o la
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