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INDIZI DI UNA PRESENZA GIOVANNITA NELL’ALTA VALLE DELL’AMASENO. LA CHIESA DIRUTA DI SAN GIOVANNI IN SILVAMATRICE

 

di

Giancarlo Pavat

 

 

 

Da tempo era nota l’esistenza nell’Alta Valle del fiume Amaseno, attualmente al confine tra la provincia di Frosinone e quella di Latina, di proprietà dell’ “Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme” o “Cavalieri Giovanniti”. Successivamente “Cavalieri di Rodi” e poi “di Malta”. Sorto in Terrasanta, ad opera di mercanti Amalfitani, verso la fine del XI secolo.

Un “cabreo” (la parola deriva da capibrevum ovvero caput breve; elenco, sommario, inventario) del 1333, conservato in Vaticano (Biblioteca Apostolica Vat., Cod. Vat. Lat. 10372, manoscritto pergamenaceo di pp. 110 tra recto e verso, cm 17 x 23,5) elenca i beni che i Cavalieri Giovanniti della Commenda di San Jacopo o San Giacomo di Ferentino (FR) possedevano “in castro Sancti Laurenti de Valle quod tenet Franciscus de Ceccano..”. (1)

Il Castrum Sancti Laurenti è l’odierna cittadina di Amaseno, che all’indomani della “Breccia di Porta Pia” ha assunto il nome del fiume di virgiliana memoria. Ma i possedimenti, che non compaiono più nei “cabrei” successivi, non vengono specificati in maniera dettagliata, come se l’estensore dell’inventario, non soltanto non sapesse quali fossero, ma non conoscesse nemmeno la zona in cui erano dislocati. Quindi, con la dicitura Sancti Laurenti avrebbe semplicemente indicato, tramite la sua la località più importante, l’intera vallata.

Ipotesi condivisa da numerosi studiosi e ricercatori, soprattutto locali, che nel tentativo di identificare questi possedimenti hanno tirato in ballo la toponomastica. Una località campestre tra Amaseno e Villa Santo Stefano (altro comune della vallata, arroccato su una rupe tufacea e fondato attorno al XI secolo, probabilmente da Monaci Benedettini provenienti da Fossanova) si chiama “Costa San Giovanni”. Ricordo di un luogo di culto dedicato a San Giovanni Battista (o all'Evangelista) oppure della presenza di un bene degli Ospitalieri? Al lato destro della Collegiata di Santa Maria, ricostruita nel XII secolo dopo la distruzione nel 1165 per mano delle truppe del “Barbarossa” (2), esisteva un oratorio intitolato a San Giovanni, rimosso nel 1921. Sempre ad Amaseno, si ha anche notizia di una chiesa di San Giovanni, in rovina già nel XV secolo, e della “Porta di San Giovanni”, oggi scomparsa.

Inoltre, vista la data del documento vaticano, 1333, potrebbero trattarsi, addirittura, di beni già appartenuti ai Templari e successivamente ceduti agli Ospitalieri, come deciso dal Pontefice dopo la cruenta soppressione del Tempio. Che secondo alcuni indizi emersi negli ultimi anni sembrerebbe anch’esso attestato nella valle (3).

E proprio le ricerche volte a trovare tracce dei Templari hanno, invece, gettato nuova luce sulla presenza Giovannita. Arrivando ad identificarne, con una elevata percentuale di certezza, uno di questi siti.

Si tratta di un luogo di per se interessante ed affascinante. Quasi magico. In cui tradizioni che affondano le radici in antichissimi culti di popolazioni italiche, sono sopravvissute sino a qualche decina di anni fa. Si tratta della chiesa diruta di San Giovanni in Silvamatrice, nella campagna di Villa S Stefano.

Già il nome è un piccolo enigma. Il termine “Silvamatrice” lo si è voluto sempre far risalire all’ambiente circostante. Una chiesa “matrice”, madre; immersa in una selva, in un bosco (4). Asserzione certamente logica, ma confutata dal Tranelli grazie ad un documento, piuttosto tardo, un atto notarile del 1539 (5), da lui rinvenuto, in cui la chiesa viene indicata come “S.ti Joannis de matrice”. Emerge evidente il riferimento ad una caratteristica topografica. Non quindi “chiesa madre”, ma chiesa che sorge sopra o presso una “matrice”. Il Tranelli, volendo attribuirne un significato, “per così dire (prendendo a prestito un’espressione dal linguaggio medico moderno) basato sulle evidenze”, osserva, giustamente, come esso indichi pure, e nel nostro caso si adatta benissimo, “una parte profonda e nascosta della terra” (6). Infatti, sotto la chiesa scorre un tumultuoso fiume carsico che, scendendo dal Monte Siserno, sbocca presso la “Fontana di San Giovanni”, a qualche decina di metri di distanza dai ruderi. I grandi vasconi in pietra sono ormai da decenni semplici abbeveratoi per il bestiame ma, in passato vennero utilizzati “per la lustrazione di uomini ed animali” (7).

Quindi un sito acquifero. Ma che per le antiche genti italiche che abitarono l’area, era anche un luogo sacro, ove si potevano manifestare divinità ctonie. Di cui sentivano la “voce”. Il sordo rimbombo delle acque sotterranee, che risaliva in superficie attraverso un pozzo, forse naturale, che si apriva nel pavimento della cripta (oggi crollata) della chiesa e perfettamente udibile sino agli anni ’50 del XX secolo. Tanto che ancora oggi, gli anziani del paese ricordano perfettamente quando le nonne li portavano a “sentire il suono della Matrice”.

Su questo sito sorse un sacello sacro, come testimonierebbero i grandi blocchi in pietra visibile sul fianco sinistro della chiesa e numerosi reperti d’epoca romana (8) portati alla luce dall’aratro del contadino e dal piccone del tombarolo. Piaga purtroppo endemica per San Giovanni in Silvamatrice. L’ultimo saccheggio, in ordine di tempo, risale alla primavera del 2008.

Esiste ancora oggi una fotografia in bianco e nero, scattata negli anni ’70, in cui si vede una “grande pietra sacrificale con una scanalatura longitudinale per lo scorrimento del sangue degli animali sacrificati alle divinità. Tale pietra fu dai costruttori della chiesa inserita nelle mura ed oggi è caduta a causa del crollo di alcuni muri interni” (9). La pietra è anch’essa scomparsa. Da ricordare anche le due mezze colonnine in marmo bianco, forse ciò che rimaneva di un altare, trafugate nel 2008.

Con l’arrivo del Cristianesimo nella vallata, non prima del V secolo d.C., sul tempio, venne eretta una chiesa paleocristiana. Forse la più antica di tutta la zona. Alla quale appartenevano probabilmente due archetti con decorazioni a spirale, che si trovavano murati sul lato destro della chiesa, anch’essi depredati.

Le grandi vasche in pietra della “Fontana di San Giovanni” vennero riconsacrate “come fonte battesimale per i catecumeni anche con il rito dell’immersione ancora in uso nella Chiesa latina in quei tempi. Che come luogo di battesimi il santuario venisse intitolato a San Giovanni Battista sembra perfettamente logico” (10).

Le scorrerie dei saraceni del IX secolo d.C., decretarono la fine della chiesa di San Giovanni e del piccolo centro abitato che sorgeva nei suoi pressi.

Verso al fine del XII secolo, seguendo i crinali dei Monti Ausoni, lontano dalle rive mefitiche del fiume e dalle paludi, scesero nell’Alta Valle per ricolonizzarla, i Monaci Benedettini di Fossanova. Costruirono dei mulini ed è a loro che, come si accennava all’inizio, si deve la nascita di Villa Santo Stefano. Che, guarda caso porta lo stesso nome del Santo a cui è dedicata l’abbazia pontina. Quanto a San Giovanni in Silvamatrice, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, venne eretta ad opera degli stessi monaci vestiti di nero, una nuova chiesa in stile romanico. Di cui vediamo ancora oggi le venerande vestigia.

A navata unica e priva di abside, si presentava con il presbiterio rialzato da alcuni gradini e l’altare posizionato a ridosso della parete di fondo. Sulla quale si apriva forse una piccola porta. Gli altri ingressi erano due. Uno laterale sulla parete di destra ed il cosiddetto Portale Maggiore. Composto “da stipiti diritti poggianti su basi attiche e da un grande architrave monolitico (attualmente risulta spezzato a causa di una granata avuta durante l’ultimo conflitto bellico) sorretto da due mensole decorate con motivo cilindriforme” (11). Sopra l’ingresso, una trabeazione scanalata regge una lunetta in stile romanico certamente un tempo affrescata. L'architrave si presenta effettivamente ancora oggi spezzato. Ma non per la causa adotta dal Cristofanilli. “Contrariamente a quanto si legge nel testo” scrive Arthur Iorio, alludendo alla monografia del G.A.V., del 1975 “l’architrave del portale grande non venne colpito da una granata durante la guerra, ma è crollato in seguito, come è visibile da foto nel 1950” (12).

San Giovanni in Silvamatrice possedeva un notevole corpus di simboli non sappiamo se attribuibili ai Benedettini di Fossanova oppure a coloro che ne presero il posto. Tra gli elementi crollati della parete di fondo, chi scrive rinvenne un blocco di tufo, quasi cubico, di circa 50X50X40 cm, con sopra inciso un consunto simbolo della “Triplice Cinta”, meglio noto come schema del gioco del “Filetto”. Si ritiene che fosse murato verticalmente all’interno della chiesa (13). Sparsi per il borgo medievale di Villa S Stefano, si possono vedere numerosi altri esempi di questo simbolo. Forse quello di San Giovanni in Silvamatrice era il modello originario, l’archetipo (14). Anche di questo, purtroppo, ci rimangono ormai soltanto alcune fotografie, visto che ha fatto la stessa fine degli altri reperti scomparsi nella primavera del 2008.

Sulla facciata della chiesa, alla destra del portale principale, sotto le ormai labili tracce della sinopia del volto del Santo, forse il Protomartire, si scorge un blocco tufaceo. Posizionato quasi al livello attuale del terreno e privo di intonaco. Sopra si nota un Triangolo Equilatero, scolpito con la base parallela al suolo. Ricorda la quarta lettera dell’alfabeto greco, avente la medesima forma; la Delta. Segno di riconoscimento di qualche corporazione di scalpellini oppure arcana simbologia?

 

L’attenta analisi della parete anteriore mi ha permesso, nel 2006, di individuare quelle che sembrano le testimonianze di interessanti della presenza dell’Ordine Giovannita a Silvamatrice. Si tratta di due “Croci amalfitane” profondamente scolpite nei blocchi di pietra. Di cui non aveva mai parlato nessuno prima, proprio perchè coperte dall’intonaco affrescato tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, staccatosi brano a brano negli ultimi anni. Eppure già da tempo erano note altre croci simili. Negli anni ’70 sugli stipiti del Portale Maggiore ne vennero individuate due, di 6X6 cm, ma erroneamente definite come croci “di consacrazione a forma greca” (15). Evidentemente non era stata notata la forma peculiare, con i bracci “a coda di rondine”. Come invece si può osservare tranquillamente ancora oggi.

Ma non è finita. Un’altra croce “a coda di rondine” faceva bella mostra di se, scolpita sul lato interno dell’architrave della porta laterale destra della chiesa. La si nota in una fotografia in bianco e nero scattata da Arthur Iorio negli anni ’50. La foto è importante anche per un altro motivo; è l’unica immagine esistente della cosiddetta “Lapide Boccanappi” del 1439 (16). Reperto davvero importante e singolare, fondamentalmente dal punto di vista epigrafico ma, sventuratamente, anch’esso scomparso nella palude del traffico e mercato clandestino delle opere d’arte ed archeologiche.

Un’altro indizio”Giovannita” potrebbe essere un affresco anch’esso perso per sempre e di cui ci rimane memoria soltanto grazie ad un’altra fotografia in bianco e nero degli anni ’50 di A. Iorio. Vi si vedono tre personaggi in atteggiamento devozionale, rivolti ad una Immagine Sacra, non più visibile già all'epoca dello scatto. Uno dei personaggi, il primo a destra nella foto, porta una barba fluente e il “bordone”, il bastone da pellegrino, con legata in cima una sacca, chiamata "scarsella", con, ben visibile, una conchiglia di San Jacopo, il pecten o conchiglia di Venere. Il dipinto ritrae quindi dei pellegrini. E sembra fare riferimento ad un pellegrinaggio a Santiago di Compostella, o comunque una devozione per Giacomo Maggiore. Nell’Alta Valle non è attestato un culto per il Santo galiziano. Se ne hanno tracce soltanto a Priverno, dove nella chiesa di San Benedetto è visibile un San Giacomo, affrescato accanto al fratello Giovanni, ascrivibile al XIV secolo, e a Maenza (sui Monti Lepini, oggi in provincia di Latina) dove si trova la chiesa sconsacrata dedicata proprio a San Giacomo.

Quindi, per il dipinto con i pellegrini di San Giovanni in Silvamatrice, l’unico rimando, ma si tratta sempre di ipotesi, potrebbe essere proprio alla Commenda ferentinate, dedicata all’Apostolo, alla quale apparteneva il “cabreo” conservato in Vaticano.

 

Inoltre, anche elementi oggetti, come la pozione stessa di Silvamatrice, concorrono nel ritenere più che probabile un insediamento Giovannita.

Se prendiamo una cartina della zona, vediamo che l’area nota come Valcatora, che già dal nome sembra indicare un punto di attraversamento, e distante poche centinaia di metri da Silvamatrice, era percorsa da una antica strada romana, di cui si vedono ancora qua e là i basoli. La “Via Marittima”, che univa la via Latina, da Frosinone, attraverso Ceccano e Giuliano di Roma con la città di Privernum e l’Appia. Percorso utilizzato anche nel Medio Evo e che conduceva a Terracina, porto dove ci si imbarcava anche per la Terrasanta e dove erano insediati i Templari (17). Lungo questo percorso sorgevano numerosi ospitali o mansiones per dare ricovero a pellegrini e viandanti. A Giuliano di Roma l’Ordine degli Antoniani aveva una chiesa ed un lebbrosario dedicati a San Nicola di Myra.

Ma in quale lasso temporale i Giovanniti si sarebbero potuti incontrare a San Giovanni in Silvamatrice? Il periodo più probabile va dalla metà del XIII secolo a poco dopo la stesura del “cabreo” del 1333. Un periodo di cui non esistono testimonianze e fonti coeve.

Il nome della nostra chiesa compare per la prima volta in un documento del 1362, quindi ventinove anni dopo il “cabreo”. Si tratta del Testamento, rogato il 24 aprile, da Giacomo I° dei Conti di Ceccano (1299-1363), signore di Maenza. San Giovanni in Silvamatrice viene citata laddove stabilisce di lasciare “la quarta parte del castello di S. Stefano alla Chiesa”, a patto che questa provveda a pagare i restauri che lui stesso aveva commissionato “per le chiese di S. Maria della Stella (lavori per 25 fiorini) e di S. Giovanni in Silvamatrice (lavori per 50 fiorini)”.

I Conti di Ceccano (antica schiatta il cui capostipite fu quel Petronio Ceccano o Petronius Ceccanus, padre del Pontefice Onorio I (625-638), che diede il proprio nome alla romana Fabrateria Vetus attuale Ceccano), seppur tra alterne vicende, furono, tra il XII ed il XIV secolo, feudatari di Villa Santo Stefano e dell’intera vallata dell’Amaseno. Relativamente a Silvamatrice, potrebbero essere subentrati ai Giovanniti, a seguito dell’abbandono o, più probabilmente, della cessione della chiesa e di altri beni. Sono esistiti stretti rapporti e legami tra la Famiglia Comitale e l'Ordine Ospitaliero. Almeno due membri della schiatta dei de Ceccano ne fecero parte, ricoprendo importanti cariche. Ad esempio Stefano, figlio di Gottifredo e Donna Giovanna de Ceccano. Che sul finire del XIV secolo fu Priore dei Cavalieri Ospitalieri di Roma. Si ricorda anche un Giovanni de Ceccano, imparentato con Stefano, che, proprio in quegli anni, fu responsabile della Commenda “Giovannita” di Fano nelle Marche.

L’ipotesi Giovannita in relazione a San Giovanni in Silvamatrice trova fondamento, quindi, essenzialmente su indizi, ma indizi oggettivi, elementi tangibili. E non astruse elucubrazioni mentali.

Abbiamo cinque “croci amalfitane”. Cinque e tutte in un luogo soltanto. Circostanza quantomeno curiosa, se si pensa che non ne sono state rintracciate di simili in tutta la vallata. E tutte ascrivibili al medesimo periodo, prima del XIV secolo, che coinciderebbe proprio con l’insediamento Giovannita.

Inoltre, non è da escludere che altre croci o simboli riconducibili all’Ordine Ospitaliero, potrebbero ancora trovarsi sotto l’intonaco superstite e ricoperto da edera ed altri rampicanti, oppure sotto le macerie che hanno innalzato, in alcuni punti anche di un metro, il piano di calpestio dell’interno dell’edificio sacro.

Altro indizio di notevole spessore è l’intitolazione stessa della chiesa al Battista, patrono dei Giovanniti.

Infine non vanno tralasciati gli accertati vincoli e rapporti tra l’Ordine ed i feudatari locali, poi titolari (a partire dalla fine del XIV secolo) dello juspatronatus sulla chiesa.

Se ragionassimo come la scrittrice Agatha Christie, secondo la quale tre coincidenze formano un indizio e tre indizi sono una prova, allora l’appartenenza di San Giovanni in Silvamatrice ai Giovanniti sarebbe inconfutabile. Ma noi preferiamo muoverci con i piedi di piombo. Diciamo che tutto quanto esposto, concorre nell’identificare la chiesa diruta santostefanese come uno dei beni che l’Ordine con la “Croce Ottagona” vantava nella valle Sancti Laurenti.

La conferma definitiva, le prove indiscutibili, potrebbero arrivare o dalla scoperta di qualche nuovo documento dell’epoca oppure da ritrovamenti archeologici. Al momento nessun Ente preposto ha mai svolto indagini o saggi di scavo in loco. L’Amministrazione Comunale santostefanese, però, ha attivato la procedura per poter acquisire l’area con le rovine della chiesa, teoricamente ancora di proprietà privata sebbene abbandonata da quasi un secolo. Questo con l’intenzione e la speranza di salvare dal definitivo oblio ciò che rimane di un monumento, davvero unico nel Basso Lazio, per i suoi aspetti storici, artistici e antropologici.

 

NOTE:

(1) Il “cabreo” recita testualmente: “Status domus Sancti Iacobi de Ferentino assignatus per fratrem Thomassium priorem domus Urbis ex parte fratris Petri de Ozeto prioris dicte domus et in primis assegnati. Quoddam stabulum cuiusdam ecclesiae Sancti Johamnnis de Verulis per florenos X; Item pro quodam Ospitali castri Babuci per florenos XXX; Item unum posse in castro Sancti Laurenti de Valle quod tenet Franciscus de Ceccano”. In pratica sono riportati, per volere del Priore Giovannitia Tommaso di Roma, i beni dell’Ordine, oltre che nel Castrum Sancti Laurenti, anche a Veroli, con la Chiesa di San Giovanni, fuori Porta Romana, in località chiamata “Arnara” e nell’odierna Boville Ernica; Bauco dove c’era un “Ospitale”.

(2)“1165 Indictione decima termia Christianus cancellarius et Comes Getheolinus ceperunt Maritimam et Campaniam praeter Anagniam, quam devastaverunt, et incenderunt Cisternam, et Castrum, et fecerunt jurare totam terram ad fidelitatem Paschalis, et Imperatoris, et sic redierunt in Tusciam. [….]. Et sic intraverunt in vallem Sancti Laurentii, et incenderunt Castrum Sancti Stephani, et Pressei, et unusquisque postea rediit ad propria. Hoc autem anno Ripe, Turrice, et Castrum Sancti Laurentii, et Insula cremata sunt, et Alexander papa reversus est Romam“ da “La Cronaca di Fossanova” o Chronicon Fossanovae o Annales Ceccanenses. Del manoscritto originale della Cronaca, conservato presso l’Abbazia Cistercense pontina, da cui ha preso il nome, non si sa più nulla da secoli, ma è probabile che sia esistito almeno sino al XVII secolo. Al 1644, risale infatti la prima edizione a stampa del manoscritto, edita da Ferdinando Ugelli. Il “Chronicon” è stato attribuito, a seconda degli studiosi, o a Giovanni Conte da Ceccano (vissuto nel XIII secolo) o ad un tale prete Benedetto, scrivano dello stesso conte. E’ redatto in “Mediolatino”, “il lessico non è di difficile comprensione, ma spesso la grammatica e la sintassi sono usati in modo erroneo e questo fa pensare che lo scrittore o gli scrittori, non avessero molta dimestichezza con l’arte della scrittura” (da “I Conti di Ceccano nei secoli XII e XIII” di Edoardo Papetti – Luglio 2003). Il “Chronicon” inizia dalla nascita di Gesù per giungere sino al 1217. Ma soltanto per gli anni successivi al Mille, riporta notizie ed avvenimenti relativi all’Abbazia pontina e al territorio circostante, tra cui la Valle dell’Amaseno.

(3) G. Pavat, 2007. “Valcento. Gli Ordini monastico cavallereschi nel Lazio meridionale”. Edizioni Belvedere, Latina.

(4) Per questa spiegazione etimologica si veda, ad esempio Arthur Iorio in “Villa S. Stefano, storia di un paese del Basso Lazio attraverso i secoli” - Casamari 1983, oppure Carlo Cristofanilli nella monografia del Gruppo Archeologico Volsco (G.A.V.) “La chiesa di S Giovanni in Silvamatrice” – Ceccano 1975.

(5) Il documento ci consente di apprendere che a far data del 4 settembre 1539, a ricoprire la carica di “abate” di San Giovanni troviamo tale Domenico Arcangeli, arciprete di Arnara. Dallo stesso documento si evince che questi affittò il “beneficio” ai sacerdoti santostefanesi Giovanni Antonio e Antonio Tambucci, per quattro anni, a dieci ducati l’anno da pagarsi nel giorno della festa del Santo (A.S.F., Fondo Notarile di Ceccano, B. 15 prot. 48 f. 24). Un altro documento, di qualche anno dopo, ci rende conto della presa in “…corporale, reale, attuale possesso della…detta chiesa con i suoi diritti e pertinenze universe…” da parte del sacerdote giulianese Matteo De Matteis, avvenuta il 5 marzo 1542, descrivendo compiutamente le formalità della cerimonia (A.S.F., Fondo Notarile di Ceccano, B. 15 prot. 48 f. 24). Il religioso, l’11 febbraio dello stesso anno, aveva ricevuto la bolla di investitura dal Vescovo di Ferentino, su presentazione di Ascanio Colonna (“Silvio Galassi vescovo di Ferentino (1585-1591) e la sua epoca” a cura di B.M Valeri - Casamari 1994).

(6) V. Tranelli e G. Pavat. “La vera storia di S Giovanni in Silvamatrice”, da “Le Foglie” n. 76 luglio 2008 dei L.E.A., Laboratori di Educazione Ambientale, Italia Nostra Onlus – Isola del Liri.

(7) A. Iorio, 1983. "Villa S. Stefano, storia di un paese del Basso Lazio attraverso i secoli”. Casamari.

(8) ... numerosi resti di ceramica, di pietre lavorate, di basoli e di resti di tombe” da C. Cristofanilli, 1975. “La Chiesa di San Giovanni in Silvamatrice”. Monografia del Gruppo Archeologico Volsco (G.A.V.), Ceccano.

(9) Ibidem.

(10) A. Iorio, 1983. "Villa S. Stefano, storia di un paese del Basso Lazio attraverso i secoli”. Casamari.

(11) C. Cristofanilli, 1975. “La Chiesa di San Giovanni in Silvamatrice”. Monografia del Gruppo Archeologico Volsco (G.A.V.), Ceccano.

(12) A. Iorio, 1983. "Villa S. Stefano, storia di un paese del Basso Lazio attraverso i secoli”. Casamari.

(13) Allo sbocco della vallata dell’Amaseno sorge Priverno, la medievale Piperno. Dove ancora oggi si trova la chiesa di Sant’Antonio Abate (XIII), appartenuta all’Ordine monastico ospitaliero degli Antoniani. La chiesa si presenta con una ricchissimo apparato iconografico (affreschi, bassorilievi) e simbolico (Croci del Tau, “Fiori della Vita”). Sul pavimento della navata si nota una “Triplice Cinta” con al centro una Croce. Un vero e proprio “unicum” per due motivi. Per quanto se ne sa, si tratta dell’unico esempio di questo simbolo con incisa una croce e posto all'interno e non all'esterno di una chiesa.

(14) G. Pavat “Le Triplici Cinte o gioco del filetto a Villa S Stefano”, da “Lazio ieri e oggi” n. 9 (526) anno XLIV settembre 2008, Roma.

(15) C. Cristofanilli, 1975. “La Chiesa di San Giovanni in Silvamatrice”. Monografia del Gruppo Archeologico Volsco (G.A.V.), Ceccano.

(16) La “Lapide Boccanappi”, che secondo A. Iorio “era ancora sull’architrave nel 1960” è una epigrafe con testo in latino, a caratteri medioevali, che attesta la costruzione e donazione, nel 1439, della cappella, in stile gotico, annessa alla chiesa, da parte di un certo Boccanappi e della moglie Iacobella. “CAPPELAM ISTAM FIERI FECIT PETRUS BOCCANAPPI CUUM IACOBELLA USSORI SUA PRO DEO ET AD HONOREM BEATI IOANNI BATTISTE AC ANIMARUM EORUM ET MORTUORUM EPORUM. QUI REQUIESCANT IN PACE AMEN. SUB ANNO DOMINI MCCCCXXXVIIII S/ECUND/A INDICTIONE NIC/O/LAUS AND/R/E ET NIC/O/LAUS DO/N/A/T/I FE/CE/RUNT O/PERA/. CHRISTE BENEDICATUR AMEN” ("Questa cappella venne fatta costruire da Pietro Boccanappi unitamente alla moglie Iacobella dedicata alla gloria di Dio ed in onore del beato Giovanni Battista per la salute delle anime loro e di quelle dei parenti morti, che riposino in pace. Amen. Nell’Anno del Signore 1439, indizione seconda. Nicola di Andrea e Nicola di Donato fecero l’opera. Che sia benedetto Cristo. Amen”). Successivamente, venne deciso di integrare la Cappella nella struttura sacra del XII secolo; provvedendola di una navata di accesso, aperta attraverso archi a sesto rialzato venne aperto il cosiddetto Portale Minore. La chiesa raggiunse quindi l’aspetto definitivo. Quello che, sebbene diruta si può attualmente ancora ammirare.

(17) Un documento relativo alla Famiglia dei Conti di Ceccano conferma la presenza dell’Ordine del Tempio a Terracina. Si tratta del testamento della Contessa Margherita di Ceccano, che ancora a metà del XIV secolo, quando il Tempio era ormai da anni soppresso, cita l’esistenza di alcuni beni.

Così delle case del Tempio site in Terracina […] La testatrice lascia alle sorelle Catuzia e Giovannella, sue figlie, ogni diritto di rendita sulle acque, l’altura e il canale che la rasenta, il diritto di frantoio, i pedaggi delle case del Tempio e tutti gli altri profitti, redditi, evenienze e pertinenze di Terracina spettanti alla testatrice per qualsiasi diritto, titolo o causa”. (dal “Testamento di Margherita da Ceccano, Contessa di Vico, 17 giugno 1384”. Traduzione dal latino medievale di Umberto Germani, 2002, a cura dell’Associazione Culturale Fabraterni, dai testi in lingua originale riportati da Michelangelo Sindici nel volume “Ceccano, l’antica Fabrateria”).

(18) Che la chiesa prenda il nome dal “Precursore” e non dall’Evangelista (a cui non c’è nemmeno un piccolo riferimento nella storia, seppur lacunosa, del monumento), appare certo, oltre che dalle vasche battesimali, dal testo della “Lapide Boccanappi” e da documenti di Età Moderna, anche da una tradizione locale, sopravvissuta sino alla metà del XX secolo. Quando nel giorno di San Giovanni Battista, 24 giugno, si teneva a Silvamatrice, il rito del “Comparatico di San Giovanni”. Le nonne univano in un vincolo affettivo sacro-profano, tramite una sorta di giuramento, bambini e bambine, accompagnati alla Fontana di San Giovanni con le coroncine di vitalba in testa. La formula, mediante la quale i “compari” e le “comari” di San Giovanni dovevano rispettarsi ed aiutarsi per tutta la vita è ancora ricordata dagli anziani santostefanesi; “Cummar San Giuann battezzam st pann, i pann s batt zzat, gnora cummar c sem ghiamat”. Poi si segnavano vicendevolmente sulla fronte con il segno della croce per mezzo di un garofano bagnato nell’acqua santa raccolta nel catino dell’acquasantiera in pietra o dei vasconi litici.

 

Si ringrazia per la gentile concessione l'Autore

 

 

©2009 Testi ed immagini sono di GIANCARLO PAVAT

 

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