NOTA CONCLUSIVA
Dopo aver presentato, nel corso di questa tesi, alcune tra le più significative illustrazioni incisorie che, lungo un periodo di cinquecento anni, si sono misurate con la difficoltà di interpretare l’Apocalisse di Giovanni, vogliamo in questa sede riprendere brevemente alcune idee già enunciate per completarle con nuove osservazioni, nel tentativo di giungere ad una sintesi del nostro discorso.
Tali osservazioni saranno di carattere essenzialmente estetico, in linea con il motivo che ci ha spinto alla nostra ricerca: la volontà di verificare le possibilità tecnico-espressive del mezzo incisorio di fronte all’illustrazione dell’Apocalisse. In questa analisi, di natura prettamente formale, non viene certo bandita tutta la ricerca di carattere storico ed esegetico dato che, come abbiamo ampiamente visto nel corso della tesi, un discorso estetico è sempre il risultato di una precisa scelta teologica e culturale.
Nostro intento è di tornare ad alcune riflessioni elaborate nei primi due capitoli di questo studio per poi rivedere sinteticamente i risultati tecnici ai quali sono pervenuti gli artisti da noi incontrati. Tutto questo per cercare di rispondere ad una domanda conclusiva che possiamo così formulare:
considerate le possibilità del mezzo incisorio e la complessità strutturale, poetica e teologica, del testo di Giovanni, dopo aver esaminato le Apocalissi, incisorie prodotte dall’arte occidentale di mezzo millennio, possiamo
dichiarare che tali illustrazioni hanno pienamente attinto alle risorse espressive dell’incisione, fino a rendere tutta l’intensità del testo, o dobbiamo denunciare l’operazione come un’occasione mancata, auspicando realizzazioni più soddisfacenti in futuro? Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro e riprendere temi di carattere estetico, da noi già affrontati nel primo capitolo della tesi ma ai quali possiamo ora accostarci in modo più consapevole.
Se pensiamo alle vetrate che, lungo il corso dei secoli, hanno interpretato l’Apocalisse, o se riportiamo alla memoria gli arazzi d’Angers, gli affreschi del Signorelli ad Orvieto, i vari codici miniati (ai quali abbiamo accennato nel terzo capitolo), e paragoniamo tutte queste espressioni ai risultati grafici di cui ci siamo occupati nel nostro studio, la differenza di impatto estetico ed emotivo risulta lampante: le Apocalissi incisorie sono sicuramente perdenti, nel paragone, dal punto di vista della spettacolarità. Se l’Apocalisse deve essere un “monito”, didatticamente utile al fine di proporre ai fedeli una seria riflessione sull’escatologia cristiana per una forte spinta alla conversione, è chiaro che più l’immagine è prorompente, più essa raggiunge il proprio scopo. Ora l’Apocalisse delle vetrate, degli affreschi e degli arazzi è un’Apocalisse di grande formato, che usa la forza del colore per indurre lo spettatore a fermarsi pensieroso, a volte addirittura terrorizzato, di fronte alle apparizioni mostruose, da lui lette spesso in modo più realistico che simbolico.
Tutto ciò è estraneo al mezzo incisorio, come anche è estraneo ad esso l’incanto cromatico delle miniature che ornano i codici medioevali con le loro misteriose figurazioni di mostri e di draghi, di angeli e di demoni. Il chiaroscuro e l’uso della linea, quali fondamentali mezzi espressivi, sono elementi che assimilano le tavole incise alla pagina tipografica: esse, formando un tutt’uno con questa, sono per eccellenza “libro”. In quanto “libro”, l’illustrazione incisoria, pur raggiungendo un pubblico anche vasto, è prodotto per persone colte, per iniziati. Sfogliando il volume per meditare la scrittura, il lettore incontra alcune tavole che riprendono il testo con scarto formale minimo: dall’inchiostro nero sul bianco della pagina tipografica, si passa, senza soluzione di continuità al chiaroscuro della tavole dove, tramite la linea, l’immaginifica scrittura giovannea diventa immagine in forma di scrittura.
Il fascino dell’Apocalisse incisoria è tutto qui: in una traduzione parallela, dimessa ma sottilmente penetrante, della parola scritta, per immagini poco appariscenti, la cui valenza simbolica è inversamente proporzionale alla ricchezza segnica. La peculiarità dell’illustrazione incisoria è dunque quella di essere la più simbolica tra le traduzioni figurative di un testo. Ciò la rende, a nostro avviso, una modalità illustrativa capace di interpretare la Rivelazione in modo aderente allo Spirito dal quale essa scaturisce: Spirito di Verità sulla storia espressa per simboli alfine di comprenderne le ragioni teologiche profonde.
Ridefinita, con questo discorso, la peculiarità dell’espressione grafica nei confronti dell’illustrazione dell’Apocalisse, passiamo ora a riesaminare, in una rapida carrellata, alcune tra le più importanti opere analizzate nel corso della tesi, cercando di capire se, nello sforzo di tradurre graficamente il genere letterario apocalittico, in tutta la sua specificità, gli artisti incisori si sono spinti a scoprire, nel mezzo tecnico da loro di volta in volta adottato, risorse espressive fino ad allora inesplorate.
Non è un discorso semplice da affrontare, questo, anche perché solo in parte abbiamo, nel nostro studio, accostato il problema direttamente, pur avendone indirettamente accennato.
Nel nostro excursus vogliamo partire da Dürer: infatti il suo uso della xilografia è sintomatico di una tensione volta a piegare il mezzo tecnico alle esigenze della traduzione in figuris dell’Apocalisse. Se il giovane artista sceglie di illustrare questo testo è anche — o soprattutto — perché avverte in tale operazione una sfida a livello tecnico: come, attraverso la xilografia, si possono esprimere delle visioni ultraterrene? A tal punto egli piega la tecnica xilografica a questo scopo, da arrivare a snaturarla. I legni di Dürer sono puro gioco di linee, dove alla linea è affidato il compito di trasformare la visione in scrittura; così facendo il vuoto prevale sul pieno: la xilografia si avvia a trasformarsi in bulino.
Certamente noi sappiamo che Dürer disegna soltanto la propria Apocalisse; la sua trasposizione del disegno sulla matrice è opera di abili artigiani. Ma sappiamo anche che egli stesso cura molto da vicino tale trasposizione. La sua “trasformazione” della xilografia in “bulino” è dunque voluta, quasi ad indicare un suo preciso intento di sublimazione della materia (il legno) in qualcosa di indecifrabile, che raggiunga la precisione del tratto calcografico pur conservando, la nitidezza, nei bianchi, della matrice in rilievo.
Con Duvet il discorso si complica ulteriormente. Egli crea una serie di tavole a bulino tendendo a rendere con tale mezzo effetti propri dell’acquaforte. L’artista, anche se suggestionato dalla grandezza di Dürer fino a farne il proprio modello, comprende che la tecnica xilografica, pur così sublimata dal maestro norimberghese, è inadeguata all’illustrazione dell’Apocalisse. A questo punto egli adotta, da orafo quale è, il bulino; ma anche quest’ultimo risulta inadeguato, secondo Duvet, a cogliere lo spessore magmatico della rivelazione di Giovanni, la quale esplora il profondo mistero della vita e della morte, dell’universo e di ciò che sta oltre di esso. Il suo bulino si trasforma così in “maniera nera” ante-litteram: egli graffia il rame, colpisce la lastra con la punta del bulino fino a renderla, tecnicamente parlando, qualcosa che sfugge ad ogni definizione. Difficilmente questi bulini di Duvet possono essere riconosciuti come tali, e non piuttosto scambiati per acquaforti.
È il suo modo per dirci che, come il linguaggio di Giovanni, per esprimere una Parola che va oltre l’umano giunge a balbettare, così il bulino, nello sforzo di illustrare l’Apocalisse, rinuncia alla propria bellezza lineare, opera di fine oreficeria, per smarrirsi in un intricato sistema di segni ben difficilmente decodificabile.
Tre secoli dopo, la tecnica litografica di Odilon Redon, in quelle tavole che meglio colgono il lato inquietante della Rivelazione giovannea, vanno anch’esse ben oltre la peculiarità del linguaggio litografico che, nella sua propria forma specifica dovrebbe mantenere in sé tutte le caratteristiche del disegno, rapida ed efficace rappresentazione del reale; al contrario le tavole del simbolista francese, danno l’idea di essere antri, dalle cui tenebre emergono spettri. Questa forzatura del mezzo litografico ci porta a concludere che, per illustrare il testo giovanneo occorre dilatare le possibilità di un determinato mezzo espressivo fino a perderne le coordinate. Così, in contrasto apparente con Redon, sulla stessa linea di riflessione semantica invece, le litografie di un De Chirico o di un Beckmann rinunziano ad ogni possibilità di suggestione estetica propria del mezzo per coglierne il puro tratto, sciatto, povero, piena rinunzia ad ogni capacità chiaroscurale della tecnica.
Da questi rapidi cenni ricaviamo un’ipotesi di riflessione: l’artista che vuole realmente giungere ad illustrare l’Apocalisse forza le possibilità espressive del mezzo incisorio da lui usato alla ricerca dell’estremo limite del linguaggio tecnico. Se a questo “scardinamento” tecnico si aggiunge lo sforzo che l’artista compie nel tentativo di tradurre in una serie di tavole grafiche, necessariamente distinte le une dalle altre, il racconto apocalittico che si svolge invece in un continuum narrativo, i cui episodi trapassano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, giungiamo a comprendere altri problemi cui la tecnica incisoria deve far fronte. Tali problemi possono essere riassunti nel fatto che l’Apocalisse è un racconto unitario a più registri: l’uso di una tecnica sola può, in parte, rendere l’unitarietà, ma a discapito della differenza di registro; la divisione in tavole frammenta in episodi il fluire ininterrotto del racconto.
Se, come abbiamo detto prima, l’incisione ha la peculiarità di cogliere il dato simbolico più nascosto dell’Apocalisse; se, d’altro canto, tutti i più grandi incisori da noi considerati si sono visti costretti a forzare il dato tecnico nello sforzo di rendere il carattere visionario del testo; se gli artisti si sono sentiti spiazzati nel loro compito di illustrare l’apocalisse per il fatto che si sono trovati forzosamente a dover fermare in immagini l’incalzante flusso del racconto giovanneo — se tutto ciò è vero, è chiaro allora che si può senz’altro affermare che tutti gli artisti incisori hanno operato con la consapevolezza di poter forse giungere ad alcuni risultati apprezzabili, ma sicuramente non pienamente adeguati alla traduzione figurale del testo di San Giovanni.
Basti per tutti l’esempio di Dürer. Egli, scegliendo di stampare le proprie xilografie in un continuum non interrotto dal testo (da lui collocato sul verso della tavola), dimostra di ben comprendere il problema fondamentale dell’illustrazione dell’Apocalisse.
Riuscire a trasformare una serie di incisioni in un complesso procedimento filmico dove, quasi in una sorta di pellicola in bianco-nero ante litteram, fosse possibile riproporre il racconto giovanneo: è questa la sua ambizione.
A ciò si aggiunga quanto già affermato a proposito della sua particolarissima tecnica xilografica, mirante ad alleggerire al massimo ogni tavola per legarla il più possibile a quella successiva. Dopo di lui, ma con minor consapevolezza critica, tale urgenza è comunque avvertita anche dagli altri maggiori incisori i quali, tutti, provano un certo disagio nell’esprimere, con la tecnica incisoria a loro disposizione, una Parola tanto sfuggente, fluida ed articolata ad un tempo.
Non è certo un caso se, a livello di strutturazione delle tavole in un racconto figurativo, tanti elementi fondamentali della struttura letteraria sono suggerimenti stilistici pressoché inascoltati dagli artisti.
I vari settenari, con la particolarità dell’ultimo elemento “vuoto”, pronto ad accogliere il settenario successivo, per creare la potente scenografia in crescendo dell’Apocalisse, non vengono presi in considerazione reale dai vari incisori che preferiscono ridefinire a loro modo la sequenza delle varie immagini. Ciò tradisce un certo disarmo dell’illustratore di fronte all’impresa cui s’è accinto.
Al termine di questa breve nota conclusiva, ci sembra di aver dato una risposta alla domanda che ci siamo posti come meta: non esiste, a nostro modo di vedere, un’illustrazione incisoria dell’Apocalisse che abbia tradotto il testo di Giovanni in modo assolutamente convincente; forse non ne potrà mai esistere alcuna che, limitando il proprio modo d’essere ad una serie di tavole separate, possa rendere in modo esauriente la complessa struttura simbolica e letteraria del Libro, e forse solo un’illustrazione incisoria che, servendosi di molteplici tecniche, utilizzasse i più recenti studi della ricerca sul “libro d’arte” e che quindi, rifacendosi a modalità tipiche del fumetto, producesse un’opera grafica da sfogliare come volume di sole immagini — forse solo un’illustrazione di questo tipo sarebbe in grado di rendere ragione di tutta la complessità del testo di Giovanni. Ciò ovviamente se, come per i maggiori risultati incisori che noi abbiamo in questa tesi esaminato, tale futura opera sorgesse da un’esegesi del testo biblico interprete vera della realtà storica e culturale in cui l’artista vive, e dal personale coinvolgimento dell’artista stesso con la vicenda profetica giovannea -fino a stabilire un profondo legame tra storia, Parola e fede dell’autore: unica garanzia questa, come abbiamo ampiamente rilevato- per la creazione di un’opera d’arte autentica.
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